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Ambiente

Sull’acqua ai privati, l’operazione verità del ministro Andrea Ronchi

“Le verità sull’acqua”, né più né meno. Andrea Ronchi pubblica sul sito del ministero delle Politiche comunitarie un vademecum di domande e risposte per “spiegare” le ragioni dell’intervento legislativo che obbliga la messa a gara del servizio idrico integrato. 
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“Le verità sull’acqua”, né più né meno. Andrea Ronchi pubblica sul sito del ministero delle Politiche comunitarie un vademecum di domande e risposte per “spiegare” le ragioni dell’intervento legislativo che obbliga la messa a gara del servizio idrico integrato. 
La definisce, il ministro, un’operazione verità, e questo è anche il nome del file che può essere comodamente scaricato: “Operazione_verità.pdf”. Vale la pena passarlo in rassegna, per analizzare alcuni nodi fondamentali del pensiero di Ronchi. 



“[È] inaccettabile sostenere che l’acqua debba essere gestita da un monopolio pubblico -spiega il ministro-. Questo perché troppo spesso i monopoli hanno generato diseconomie di scala e si sono tramutati in carrozzoni, diventando fonte inesauribile di sprechi. La stella polare di questa riforma è il servizio fornito al cittadino. Il discrimine, quindi, non è la scelta tra pubblico e privato ma piuttosto la possibilità di un vero confronto competitivo tra più candidati gestori”
. Monopolio pubblico, purtroppo, non è una descrizione adeguata del sistema idrico integrato di una città. Perché in casi del genere si parla, come qualsiasi testo di teoria economica avrebbe potuto suggerire allo staff del ministro, di monopolio naturale, ovvero di un servizio che può essere gestito solo il regime di monopolio. Ammettendo questo, però, sarebbe saltato uno dei “miti fondativi” del decreto Ronchi (la l. 166/2009), quello della concorrenza, ovvero di un “vero confronto competitivo tra più” gestori. Ronchi, nel suo testo, fa riferimento a “più candidati gestori”. Non spiega, ma dà per scontato, che tutti conoscano la differenza che passa tra concorrenza per il mercato e concorrenza nel mercato. Nel primo caso, un servizio viene affidato tramite gara, e la forza del libero mercato si esplicita solo in un momento dato, quello della pubblicazione e della risposta al bando. Una volta prescelto, il gestore è “Re”, incontrastato e (poco) controllato per un periodo di 20-30 anni. 
Vale la pena sottolinearlo: quello che il decreto Ronchi impone è cioè la privatizzazione di un monopolio naturale, con buona pace dell’idea di liberalizzazione, che non è applicabile ad un servizio basato su una rete continuamente occupata da un bene, l’acqua, che può esservi immessa da un unico soggetto gestore. 
Inoltre le gare per il servizio idrico integrato, almeno per come si sono svolte nel nostro Paese, non sono garanzia di concorrenza: varrebbe la pena, per completezza d’informazione, che il ministro citasse la sentenza con cui nel novembre del 2007 l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato ha multato le due multinazionali Acea (romana) e Suez (francese) per un accordo di “non belligeranza” stretto in merito alle gare per gli acquedotti italiani. 



Parlando del nodo “investimenti-tariffe” il ministro Andrea Ronchi scrive: “Anche se oggi la presenza della gestione pubblica è assolutamente preponderante, dal 1998 al 2008 le tariffe sono cresciute del 47%. Aumenti giustificati con promesse di investimenti che si sono realizzati soltanto per il 49% delle cifre stabilite (questo è uno dei motivi per cui le tariffe italiane restano comunque tra le più basse in Europa)”. Ma il nesso tra investimenti e tariffe meriterebbe un approfondimento maggiore. Resta un “non detto”, un “sospeso”. Ronchi dovrebbe ricordare agli italiani, e in particolari ai pubblici amministratori primi destinatari di questa operazione verità, che il legame diretto tra investimenti e tariffe è dato dalla legge Galli, che all’articolo 13 spiega che “la tariffa è determinata […] in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio”. Se la bollette crescono anche laddove la gestione è ancora affidata a società per azioni a totale capitale pubblico, ciò è dovuto esclusivamente alla legge. Legge che impone alle società (pubblica o private che siano) di finanziarie gli investimenti tramite la tariffa, escludendo il ricorso alla fiscalità generale. È il principio del full recovery cost, la cui inadeguatezza al contesto italiano e ad una rete che necessita di investimenti per due miliardi di euro all’anno, è provata (anche) da una recente proposta di Federutility, la federazione delle aziende del settore. Nel presentare un “Piano di investimenti per il settore idrico”, le associate a Federutlity chiedono “fondi pubblici di accompagnamento e sostegno per cofinanziare gli interventi previsti”. Aggiungendo però che, dal loro punto di vista, “l’accesso a tali fondi dovrebbe essere regolato secondo criteri premiali. Un indispensabile prerequisito di accesso dovrebbe essere individuato nella coerenza dei percorsi avviati in materia di riforma dei servizi idrici da parte del soggetto gestore…”. Si chiedono, cioè, fondi pubblici per sostenere gli investimenti nel settore di soggetti di diritto privato cui è riconosciuta per legge anche “un’adeguata remunerazione del capitale investito” del 7 per cento. Para più coerente, in questo senso, la proposta contenuta nella proposta di legge d’iniziativa popolare presentata dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua nel 2007, che chiede il ricorso alla fiscalità generale ma nell’ambito di gestione affidata esclusivamente a soggetti pubblici.

Pescando (quasi) a caso tra le sei domande “più frequenti” cui sceglie di rispondere il ministro, conviene soffermarsi su questa frase: “L’adeguamento delle infrastrutture necessita di ingenti investimenti. Il fabbisogno nazionale di investimenti è pari a 60,52 miliardi di euro (pari a circa 120.000 mld di vecchie lire!) di cui il 49,7% per gli acquedotti e il 48,3% per fognature e depuratori. A fronte di questi dati ne discende che gli investimenti privati sono indispensabili per la ristrutturazione della stessa rete idrica. Ciò renderebbe il servizio più efficiente con un contestuale sgravio degli oneri ora sopportati dagli enti locali e, quindi, dalla collettività generale chiamata in questo modo a risanare con la fiscalità ordinaria i bilanci dei comuni, con la sottrazione di importanti risorse per altri investimenti in settori cruciali come ad esempio la sanità e l’istruzione”. E, dopo averla letto, scomporla per capire se esistono nessi logici tra un passaggio e l’altro. Colpisce, ad esempio, che dato il fabbisogno di investimenti di 60,52 miliardi di euro (ma in trent’anni, ministro, perché non indica anche l’orizzonte temporale?), questo possa essere coperto solo dagli investimenti privati. “Ne discende”, “sono indispensabili”, scrive Ronchi. E perché, poi, ciò implicherebbe uno sgravio dei conti degli enti locali, se è vero che per effetto della legge Galli, dalla metà degli anni Novanta gli “investimenti” stanno in bolletta, cioè non ricadono sulle casse degli enti locali, ma su quelle dei cittadini? La ciliegina su questa torta confezionata dal ministero delle Politiche comunitarie è però l’ultimo passaggio: gli investimenti nel servizio idrico integrato toglierebbero risorse a “settori cruciali”, quali sanità ed istruzione. L’accesso all’acqua potabile non dovrebbe esser considerato, da uno Stato, un servizio d’interesse generale, al pari di scuole e ospedali, un diritto di cittadinanza? Varrebbe forse la pena che il ministro Ronchi concentrasse la sua attenzione, e la ricerca di fondi pubblici da investire nel servizio idrico integrato, in sanità e in istruzione “sforbiciando” il bilancio del ministro della Difesa, guidato dall’ex compagno di partito in Alleanza nazionale Ignazio La Russa.

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