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Esteri

E se domani?

In questi giorni di crisi economica, oltre alle parole e ai numeri, anche le date sono importanti. La prima è il 7 settembre 2011, domani.

Domani scadranno infatti i termini per formalizzare l’azione legale che la Federal Housing Finance Agency (FHFA), un’agenzia del Governo degli Stati Uniti che si occupa di finanza del mercato immobiliare e rappresenta i due colossi del mattone a stelle e strisce nazionalizzati durante la crisi Fannie Mae e Freddie Mac, ha avviato contro 17 istituzioni finanziarie di tutto il mondo.

Fra queste: le statunitensi Citigroup, Bank of America, General Electric, JP Morgan, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs. Nel mirino dell’FHFA anche diversi colossi europei del credito come Deutsche Bank, Barclays, Rbs, Société Générale, HSBC e Credit Suisse.

Tutti questi gruppi sono stati accusati di avere ingannato i due colossi semipubblici del mutuo Fannie e Freddie su un totale (fra titoli e mutui) di 71,3 miliardi di dollari.

La portata di questa azione è notevole. Portare le banche a giudizio vuol dire ristabilire la supremazia del diritto sui cosiddetti “mercati”, quella della politica sulla finanza. Ristabilire la supremazia della responsabilità sulla “fuga” che caratterizza il sistema economico odierno.

Ecco un’altra data: nell’agosto del 1971 il presidente statunitense Nixon sospende la convertibilità del dollaro in oro. È la genesi della finanziarizzazione dell’economia. Dopo 40 anni esatti, i mercati finanziari valgono la cifra astronomica di 611mila miliardi di dollari, mentre il Pil mondiale è di “soli” 74mila miliardi. Per le Borse passano solo 50mila miliardi, le obbligazioni sono 95mila.

La finanza internazionale è fatta soprattutto di 466mila miliardi di dollari in prodotti derivati. Il 90% di questo mercato, condotto fuori dalle Borse, è controllato da 10 banche. Soldi che producono soldi, una gigantesca bolla che ha finto di produrre ricchezza. Solo che a un certo punto qualcuno ha chiesto il conto. E quella ricchezza, in realtà, erano solo pezzi di carta.

Dopo 40 anni esatti, il sistema finanziario è fuori controllo, e attraversa una delle crisi più gravi della storia. Addirittura alcuni governi invocano l’introduzione della Tobin tax, ovvero di una tassa sulle transazioni finanziarie, che dovrebbe limitare le speculazioni. Ironia della sorte: 10 anni fa, a Genova (ancora un anniversario, luglio 2001) durante il tragico G8 i movimenti che invocavano la Tobin tax vennero derisi (e manganellati).

Ma la crisi della finanza internazionale è intimamente legata alla crisi degli Stati: il collegamento si chiama “debito pubblico”. Oggi le economie “occidentali” sono incredibilmente indebitate col sistema finanziario, cui hanno chiesto denaro. Con quel debito, hanno finanziato servizi, opere pubbliche, favori elettorali. Oggi i mercati rivogliono quei soldi. La finanza, che pochi mesi fa è stata salvata dagli Stati, ora se li sta mangiando. Nessun Paese occidentale, nemmeno la Germania, può dirsi al sicuro. Il nostro debito pubblico è alle stelle, e questo lo si deve anche ad alcune scelte precise, come quella -ecco un’altra data da tenere a mente- del 12 febbraio 1981. Viene ricordato come “il giorno del divorzio”, ovvero il giorno in cui la Banca d’Italia smise di acquistare titoli di Stato stampando moneta. Il risultato fu il contenimento dell’inflazione, ma anche l’aumento dei tassi di interesse (tanto che la spesa pubblica per interessi passò dai 20mila miliardi di lire del 1980 ai 127mila miliardi di lire nel 1990). Così si era messo in moto un processo di accumulo del debito provocato non da un aumento di spese pubbliche, ma di spese per interesse. L’Italia, che vanta primati importanti di inadeguatezza estrema nell’affrontare la crisi, sta pateticamente cercando di affrontare il problema del debito pubblico proponendo tagli ai servizi, privatizzazioni, svendita dei patrimoni. Né servono gli acquisti di titoli italiani da parte della Banca centrale europea, che altro non fa che emettere altri bond, aumentando ulteriormente la finanziarizzazione del nostro debito.

Se fosse tutto qui, non ci preoccuperemmo. Basterebbe ribadire che la finanza speculativa ha fatto montagne di denaro speculando sulle nostre economie e scaricando i rischi sulla collettività. E dire che il debito contratto con loro è illegittimo e non si paga. Sempre a Genova, sempre 10 anni fa, chiedevamo la cancellazione del debito per i Paesi poveri, cui Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale imponevano piani di “aggiustamento strutturale” fatti di privatizzazioni e liberalizzazioni. Oggi tocca a noi: cambiano i soggetti, ma c’è sempre qualcuno che -forte dei crediti che ha contratto- vuole imporre dall’alto politiche che tutelino “i mercati”, e non i cittadini. Oggi siamo noi che vorremmo chiedere la cancellazione del debito per l’Italia. Chi la fa, l’aspetti.

Tuttavia un’ultima riflessione dovrebbe essere fatta. Non possiamo più dire che esiste da una parte una finanza “cattiva”, che minaccia l’economia “reale”. Dobbiamo chiederci se anche questa economia “reale” sia davvero auspicabile, e se -addirittura- la sua stessa esistenza non sia stata resa possibile proprio dalla mostruosa finanza speculativa.

Perché l’economia “reale”, oggi, porta con sé un debito ancora più spaventoso del debito finanziario. È il debito ecologico, quella pratica per cui intere generazioni hanno vissuto sperperando il capitale naturale, senza pensare a preservarlo per le generazioni future. La finanza speculativa è stato il braccio di questa economia miope e senza speranza.

La vera crisi è nella fine del petrolio, nella cementificazione, nel caos climatico. Il tempo della “crescita” è finito. Non sconfiggeremo il debito pubblico aumentando il Pil.

Dalla crisi si esce solo immaginando un sistema economico alternativo (un’altra economia) che garantisca benessere e giustizia per tutti, preservando le risorse riducendo i consumi. Assumendoci tutti le nostre responsabilità, da domani.

 

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