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Ambiente / Opinioni

Il caso Eni-Malabu: il governo se ne lava le mani

Il vice ministro Stefano Fassina, rispondendo a un’interpellanza del M5S sulla dubbia acquisizione di un giacimento nel Delta del Niger, ammette che l’esecutivo non ha maggiori informazioni rispetto agli altri azionisti, e sposa la tesi espressa da Paolo Scaroni durante l’assemblea degli azionisti
Il caso anche sull’Economist

Ieri, alla Camera dei deputati, una trentina di parlamentari del Movimento 5 Stelle ha presentato un’interpellanza urgente al governo sul caso Eni-Malabu, ovvero l’acquisizione “dubbia” da parte della principale multinazionale del nostro Paese di un ricco giacimento petrolifero nella regione nigeriana del Delta del Niger.
Al centro della questione non ci sono le "solite" mazzette, ma anche il fatto che top manager dell’Eni avrebbero defraudato la società stessa e i suoi azionisti, cercando di accaparrarsi per fini personali una parte delle tangenti.
Una storia complessa e dai contorni a dir poco opachi, già ripresa da vari organi di stampa nazionali e internazionali (tra questi anche Altreconomia con un articolo di Re:Common) anche a seguito di un intervento di Simon Taylor, esponente di Global Witness, durante l’ultima assemblea degli azionisti dell’Eni (datata 10 maggio 2013). Un intervento al quale rispose l’amministratore delegato dell’azienda Paolo Scaroni, le cui parole sono state ampiamente riprese  oggi in aula nella replica del governo, nella persona del vice ministro per l’Economia e le finanze Stefano Fassina.
Il nostro esecutivo “sposa” in tutto e per tutto la posizione di un’impresa che, per altro, è quotata in borsa -come ha specificato Fassina-. Quindi, ha ribadito l’esponente del Partito Democratico, le informazioni a disposizione del governo sono le stesse che hanno i normali azionisti. Né più, né meno. Peccato che tramite il ministero dell’Economia e la Cassa depositi e prestiti lo Stato possieda il 30 per cento dell’azienda. Tanto per capirci, quando si tratta di nominare i vertici dell’Eni ci pensa il governo in carica, forte delle sue azioni, però se occorre intervenire su azioni “controverse” ci si fa scudo del mercato e delle sue ferree regole. Così facendo si evita di andare a scoperchiare il vaso di pandora di turno, o supposto tale.

Ogni anno, il rappresentante del ministero dell’Economia si presenta all’assemblea degli azionisti dell’Eni per dire due parole -che salgono a quattro quando c’è il rinnovo delle cariche– e di fatto approvando in toto la linea aziendale. Ciò che conta è il lauto dividendo che entra nelle casse di Via XX Settembre, di solito superiore al miliardo di euro. Certo, di recente qualche parolina in più sugli aumenti salariali concessi a Paolo Scaroni (in un anno si è passati da 4,9 a 6,4 milioni di emolumenti) quelli del ministero dell’Economia l’hanno detta. Ma si sa, siamo in tempi di crisi è un po’ di retorica su questa cose tocca pure farla, sebbene sarebbe meglio andare a scavare in altre questioni che riguardano l’operato dell’azienda.
Crediamo che da parte del governo sia un atto dovuto informarsi in maniera diretta, e non per interposte persone, sulle vicende che hanno a che fare con le attività delle aziende partecipate, specie se tali attività hanno luogo fuori dai confini italiani e in Paesi cosiddetti "in via di sviluppo". E che sia dovere del governo far sapere ai cittadini italiani se le multinazionali italiane in cui lo Stato una cospicua partecipazione operano rispettando le normative nazionali e internazionali. Senza dover aspettare che a occuparsene sia il magistrato di turno, nel caso dell’Eni già alle prese con casi di possibile corruzione internazionale in Algeria, in Kazakistan e in Iraq.

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