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Opinioni

La deriva regressiva dell’Italia

Il circo che ha accompagnato il dibattito politico sull’abolizione dell’Imu e l’aumento dell’Iva pare dimenticare che secondo la Costituzione della Repubblica il sistema fiscale è informato a criteri di progressività. E che le tasse servono a garantire la tutela dei diritti 

Tratto da Altreconomia 153 — Ottobre 2013

La tutela dei diritti ha un costo e questo costo si chiama “tasse”. Il fisco -il sistema che regola le tasse- dovrebbe perseguire -con efficacia ed efficienza- obiettivi di redistribuzione della ricchezza tra i cittadini. Un circo ha accompagnato la triste vicenda della “sedicente” abolizione dell’Imu (Imposta municipale unica, o propria) e del temuto aumento dell’Iva (Imposta sul valore aggiunto) confondendoci le idee. Occorre fare un passo indietro. E -anche se ormai è considerato reazionario e fuorimoda- partire dalla Costituzione, la quale -ci piaccia o no, o non ce lo ricordavamo- all’articolo 53, sancisce che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

Ora, la parola “progressività” non ammette interpretazioni. Un’imposta è fissa se è uguale per tutti. Si chiama proporzionale se dipende dall’ammontare su cui grava. Si chiama regressiva se, all’aumentare dell’ammontare, cresce meno che proporzionalmente. E si chiama progressiva se cresce più che proporzionalmente rispetto all’aumentare dell’ammontare su cui grava. L’Irpef, è un esempio, appartiene a quest’ultima categoria (progressività per scaglioni, per essere precisi).
Cancellare l’Imu -il suo presunto “superamento” è previsto per il 2014- equivale a cancellare una tassazione patrimoniale: migliorabile, ma una delle poche nel sistema fiscale italiano. Un pasticcio per i conti pubblici, un regalo a chi dispone di redditi più alti, messo sul conto di chi ha redditi più bassi, a fini elettorali.

L’aumento dell’Iva che consegue a questa bella trovata richiede però di andare oltre la bassa dialettica politicante (“ucciderebbe la ripresa”, oppure “non si può ritardare: l’Europa ci chiede di spostare la tassazione dalle persone alle cose”. Sono dichiarazioni autentiche: il gioco sta nell’attribuirle a questa o quell’altra parte politica). L’Iva è un’imposta tipicamente regressiva: colpisce maggiormente i redditi bassi. Tradotto: il suo aumento pesa più sui poveri che sui ricchi. E attenzione, non è solo un’ipotesi. Al di là del paventato e poi realizzato aumento dal 21 al 22%, l’innalzamento dell’Iva dal 4% al 10% sui servizi sociosanitari resi dalle cooperative sociali a partire dal 2014 è già previsto dalla Legge di Stabilità 2013 (la 228 del 24 dicembre 2012). Colpirà servizi che riguardano gli utenti delle cooperative sociali di tipo “a”, oltre 4,3 milioni di persone, per la maggior parte minori svantaggiati, e metterà a rischio oltre 43mila posti di lavoro. Più in generale, un aumento di 6 punti dell’Iva costringerà gli enti locali a tagliare i servizi a parità di spesa, di fatto con un trasferimento di risorse dal locale allo Stato centrale.
In barba alla Costituzione, la regressività si fa strada un po’ dappertutto, se è vero che anche il presidente dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha di recente suggerito che le tariffe elettriche andrebbero riviste, distribuendo gli oneri di sistema non in base ai consumi. Ovvero, per incentivare i consumi di energia elettrica, far pagare meno a chi consuma di più. Alla faccia del risparmio energetico.

Per inciso, nel “Decreto del Fare 2” si prevede la realizzazione nel Sulcis di una centrale termoelettrica, che ne dovrebbe usare il carbone. La centrale -dotata di un fantomatico impianto di cattura della CO2, tecnologia cui non crede più nessuno- godrebbe di incentivi pari a oltre 60milioni di euro l’anno, ovviamente recuperati -in maniera regressiva- dalle bollette degli italiani. Alla faccia delle fonti rinnovabili.
Tutto questo, al solito, in nome dei mercati e della competitività del sistema economico nostrano.
Noi rimaniamo dell’idea che la competizione non si vince con nuove infrastrutture, grandi opere, alta velocità e perdita di diritti (sono 9 milioni le persone in sofferenza lavorativa, tra disoccupazione, precariato, mobilità etc.). Forse non esiste alcuna competizione. Esiste semmai la necessità di un sistema economico degno, che è tale solo con una classe dirigente (politica ed economica) più preparata, con livelli di istruzioni più alti per i giovani, con investimenti in settori dove ancora manteniamo eccellenza: cultura, ricerca e innovazione tecnologica, paesaggio, turismo, agricoltura.

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