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Altre Economie

Casari del futuro

Le “latterie turnarie” friulane garantiscono qualità dei prodotti e filiera equa: un modello nato a inizio Novecento —

Tratto da Altreconomia 156 — Gennaio 2014

Sereno Milisso è un giovane allevatore friulano. Ha 36 anni, produce circa sei quintali di latte al giorno, e sa che il futuro della sua azienda dipende da un modello d’impresa che ha radici nei primi anni del Novecento. Milisso è il presidente della Latteria turnaria di Campolessi, che prende il nome da una frazione di Gemona del Friuli, in provincia di Udine: in questo borgo, alle pendici delle Alpi Giulie, la Latteria è una cooperativa di servizio, che trasforma il latte dei soci e restituisce loro, a turno, e in base alla quantità di materia prima consegnata, il prodotto finito, burro o formaggio (quello più tipicamente friulano si chiama, appunto, “Latteria”).
“I soci sono sedici, e tra queste ci sono solo tre o 4 aziende grandi, cioè con più di venti capi, mentre le altre hanno tra i due e i quattro animali. Lavoriamo tra i 18 e i 20 quintali di latte, che viene trasformato ogni giorno. Dal 2012 -aggiunge Milisso-, abbiamo aperto anche uno spaccio: in questo modo aiutiamo i soci anche nella distribuzione. Per questo abbiamo iniziato a produrre anche stracchino e caciotte”.
Sereno Milisso e gli altri soci, tre dei quali hanno meno di 40 anni, non temono la fine del regime delle quote latte (vedi Ae 155). Lui ne immagina gli effetti, ma non ne ha paura: “Il nostro formaggio a latte crudo piace. I soci vendono direttamente il prodotto trasformato, non conferiscono a nessuno il proprio latte. Abbiamo puntato sulla qualità, e sono convinto che il mercato sia destinato a crescere”.
La “contabilità principale” della Latteria è quella di una cooperativa di servizio: prevede i costi vivi dei casari, che a Campolessi sono due (uno più giovane, Alberto, che sta imparando il mestiere da un collega esperto, Rinaldo) e le spese energetiche, ed è sulla base di queste spese -per un totale di circa 100mila euro- che viene calcolato -su base annua- un “tasso di lavorazione”, che ogni socio riconosce al caseificio. A turno, poi, gli allevatori recuperano un quantitativo di formaggio che dipende da quanto latte hanno conferito. Quelli che ne hanno bisogno, perché non hanno la possibilità di gestire in autonomia il rapporto con la distribuzione o di effettuare le consegne, possono rivendere il prodotto finale alla coop, che lo acquista e lo vende nello spaccio. Che a Campolessi è aperto ogni mattina, e fattura circa 10mila euro al mese.

Da settembre 2013, su iniziativa di Slow Food Friuli-Venezia Giulia e dell’Ecomuseo delle acque del Gemonese (vedi box), le Latterie turnarie sono diventate un “Presidio Slow Food” (www.presidislowfood.it). E il riconoscimento non riguarda soltanto il formaggio, ma un sistema di produzione e trasformazione del latte che garantisce appunto un presidio del territorio collinare e montano: “L’allevamento permette lo sfalcio dei prati, ed è quest’erba a dare il sapore del formaggio. Curiamo il paesaggio, ma allo stesso la nostra organizzazione del lavoro garantisce un reddito all’allevatore -spiega Milisso-. Perché è solo così, garantendo loro un reddito adeguato che le aziende sopravvivono”.
Quello delle latterie turnarie è, del resto, un modello di mutuo aiuto. Nato a inizio Novecento, quando una miriade di piccoli agricoltori-allevatori, famiglie che possedevano solo due o tre capi, capirono che era fondamentale riunirsi per ottimizzare i costi di lavorazione del latte.
Negli anni Sessanta, in Friuli, erano attive circa 600 latterie turnarie, quasi una per frazione, che lavoravano 3 o 4 quintali di latte al giorno.

“Negli anni Duemila non si parla più di qualità, ma solo di latte. E di cooperative di questo tipo ne sono rimaste una decina, in tutto il Friuli” spiega Milisso. In mezzo c’è stato lo spartiacque, doloroso, del terremoto del 6 maggio 1976. Nel centro di Gemona, che fu l’epicentro del sisma, ce lo ricorda la mostra fotografica permanente “1976 frammenti di memoria”. Attraversando le campagna, quello che Maurizio Tondolo, direttore dell’Ecomuseo, definisce “interventi di riordino fondiario”, che hanno mutato profondamente il paesaggio del gemonese: le proprietà si sono accorpate; le stalle di famiglia hanno lasciato il posto ad allevamenti strutturati, e per molti è diventato conveniente conferire il latte a un’azienda che si sarebbe occupata di trasformarlo e venderlo.
La meccanizzazione della stalla comporta (anche) il declino del modello mutualistico della latteria turnaria, e di un allevamento che privilegia da sempre la qualità del prodotto. Maurizio Tondolo mi mostra il regolamento approvato da un’assemblea straordinaria del febbraio 1975 che riuniva i soci della Latteria turnaria di Buja, un Comune che confina con Gemona: “È fatto divieto di alimentare le bovine da latte con insilati e con foraggi ed altri alimenti che possono alterare le proprietà peculiari del latte e renderlo non idoneo alla trasformazione” è scritto tra le norme per il conferimento. “Insieme a quella di Campolessi, la latteria di Buja è una delle due che fanno parte del ‘Presidio’ -spiega Maurizio Tondolo-. Abbiamo letto il regolamento mentre preparavamo il disciplinare per i formaggi Slow Food, ma ci siamo resi conto che qua la ricerca della salute dell’animali è prassi consolidata, che nella trasformazione non è mai stato permesso l’utilizzo di fermenti non naturali, né di additivi, che la stagionatura del ‘Latteria’ avviene da sempre nelle cantine, e non nelle celle frigorifere”.

A febbraio 2014, l’Ecomuseo e Slow Food Friuli-Venezia Giulia (www.slowfoodfvg.it) organizzano a Gemona un convegno sul rapporto tra il modello latterie e il paesaggio, perché -spiega Tondolo- “i presìdi hanno una forte valenza territoriale”. Oltre alle latterie turnarie, l’Ecomuseo -che è referente a livello territoriale per il Forum “Salviamo il paesaggio” (www.salviamoilpaesaggio.it)– ha promosso il riconoscimento del Pan di Sorc, garantendo la ricostruzione della filiera di questo pane prodotto fino agli anni Sessanta, con una miscela di segale, frumento e mais cinquantino, recuperato grazie a tre o quattro anziani che ne coltivavano ancora poche file, e conservavano il seme. “La filiera -spiega Tondolo- ha permesso di salvare brandelli di paesaggio agricolo tradizionale, dove prevalgono ad esempio il ‘campo chiuso’ e la coltura del gelso, nel Campo di Osoppo-Gemona”, la piana attraversata dal fiume Tagliamento al cui estremo ha sede, in un antico mulino, l’Ecomuseo.
La particolarità di questo pane sta nel mais ‘cinquantino’, il cui frutto è una pagnocchietta che matura in soli 50 giorni, seminato durante l’estate -dopo il primo raccolto- e pronta già a settembre: la farina è leggermente dolce, e dà lo stesso sapore al pane, tanto che i contadini avevano pensato di mettere dentro anche uvetta e fichi, e di farne il dolce delle feste.
“Tra i semi che abbiamo recuperato, esistono ben 3 varietà diverse di cinquantino -spiega Tondolo-, e anche la polenta è straordinaria”.

Il “Pan di sorc” da due anni e mezzo è presidio Slow Food, ed il progetto -sostenuto dall’Ecomuseo e dalla Regione Friuli-Venezia Giulia- è portato avanti da un’omonima associazione (www.pandisorc.it), che riunisce una decina di coltivatori custodi, due mulini e un forno. A differenza delle latterie turnarie, in questo caso l’obiettivo non è quello di creare economie, ma di conservare memoria: “Tra i protagonisti del progetto c’è anche un vecchio mugnaio, che ha insegnato a Elena, la giovane che gestisce il mulino di Gemona, a macinare il ‘cinquantino’, che ha bisogno di particolari accortezza”. Il “Pan di sorc” è anche un progetto educativo e sociale: una decina di “custodi del seme” sono persone che coltivano le granelle nell’ambito di un protocollo con il Distretto di salute mentale di Gemona. —

Un museo del presente
L’Ecomuseo delle acque del Gemonese è il primo nato in Friuli-Venezia Giulia nel 2000, frutto di un progetto del Comune di Gemona e della cooperativa Utopie concrete, che ha ottenuto un finanziamento per trasformare un vecchio mulino in laboratorio didattico (www.ecomuseodelleacque.it). “Opera in un contesto particolare, all’interno di un’area geografica omogenea, quella del Campo di Osoppo-Gemona, ricchissima di ambienti umidi e idrauliche”. Si occupa di valorizzare questo contesto, cioè luoghi, edifici, memorie e tradizioni, il segno della presenza dell’uomo nei comuni di Artegna, Buja, Gemona del Friuli, Majano, Montenars e Osoppo, tutti in provincia di Udine. Gli ecomusei (oggi 6) sono riconosciuti con la legge regionale 10/2006.

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