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Solo annunci sul Terzo settore

La riforma promessa ha preso la forma di una legge delega che dovrebbe intervenire -con poche risorse a disposizione- su impresa sociale e servizio civile, 5 per mille e fiscalità del non profit. Il governo chiamato ad adottare i provvedimenti previsti entro un anno. Il 10 novembre alla Camera una giornata di audizioni non stop degli attori coinvolti

Tratto da Altreconomia 164 — Ottobre 2014

Il governo guidato da Matteo Renzi l’ha presentata come una rivoluzione per gli oltre 300mila enti non profit che l’Istat ha censito nel 2011. La riforma del terzo settore -“lo chiamano il terzo settore, ma per me è il primo”, ama dire l’attuale presidente del Consiglio- è stata una delle prime dichiarazioni di intenti del nuovo esecutivo. Annunciata pubblicamente a Lucca il 12 aprile durante il Festival del Volontariato, è stata lanciata ufficialmente con alcune linee guida aperte alla consultazione pubblica diffuse da Renzi con un tweet  alla mezzanotte del 13 maggio. È arrivata sul tavolo dell’esecutivo, dopo un migliaio di mail di osservazione giunte e analizzate dal governo, a inizio luglio, ma solo il 6 agosto si è potuto leggere il testo definitivo della riforma, che però è un disegno di legge delega.
Presentato in Parlamento a fine agosto, vorrebbe mettere ordine e rilanciare il settore: trovando nel Codice Civile una collocazione, e una semplificazione burocratica, agli enti non profit, riformando le attuali leggi sulle organizzazioni di volontariato e sulle associazioni di promozione sociale, revisionando la disciplina sull’impresa sociale, istituendo il servizio civile universale e riformando tutto il regime di fiscalità che ruota intorno agli enti non profit. Compreso il 5 per mille, che dopo molti anni di sperimentazione è ancora lontano dall’essere stabilizzato. 

Tante idee, poche risorse.
Il governo ha un anno di tempo per adottare tutti i provvedimenti legislativi necessari a mettere in pratica le dichiarazioni di intenti della delega, ma è un percorso in salita: gli obiettivi devono fare i conti con la realtà,  e la realtà mostra che i soldi per fare tutto non ci sono. La legge, del resto, parla chiaro: dall’attuazione delle deleghe non dovranno derivare nuovi o maggiori oneri a carico dalla finanza pubblica. “Il suo impatto -spiega Paolo Venturi, direttore di Aiccon, l’Associazione italiana per la promozione della cultura della cooperazione e del non profit- si misurerà sulla capacità di produrre sviluppo per il non profit, non sui fondi messi a disposizione”.

L’unica eccezione, in termini di copertura economica, è l’istituzione di un fondo rotativo a favore dell’impresa sociale, che servirà a “finanziare a condizioni agevolate gli investimenti in beni strumentali materiali e immateriali”. 50 milioni di euro che il governo ha già trovato e che andranno a favore delle imprese sociali. Il sottosegretario al lavoro e alle politiche sociali Luigi Bobba ha affermato che tali risorse verranno incrementate il prossimo anno, attingendo ai finanziamenti della Cassa depositi e prestiti e a fondi strutturali. Intanto il 5 per mille e il servizio civile universale, le due azioni che prevedono il maggiore investimento finanziario, tra quelle previste dalla delega, rimangono senza copertura in attesa, come accade ogni anno, la Legge di Stabilità.

Come cambia l’impresa sociale.
La riforma dell’impresa sociale è una priorità della più ampia riforma del terzo settore. Introdotta per legge nel 2006, l’impresa sociale così codificata ha stentato a decollare: solo poche centinaia di imprese si sono create rifacendosi alla legge in vigore, che prevede alcune agevolazioni in cambio del rispetto dei requisiti.
La gran parte delle imprese sociali, così, sono le oltre 11mila cooperative sociali che operano soprattutto per l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, nell’assistenza sociale, nella protezione civile e nella sanità, ma che se si rifanno ad un’altra legge. È un universo che conta su circa 400mila dipendenti e che nel 2013 è riuscito, nonostante la crisi, a registrare un calo occupazionale limitato all’1,2%, secondo i dati diffusi da Uniocamere. La legge delega accoglie uno dei progetti di riforma che erano già arrivati in Parlamento, portati avanti da Bobba e dal parlamentare Stefano Lepri, che cerca di rilanciare l’impresa sociale: la qualifica non sarà più facoltativo, ma verrà applicata di diritto alle cooperative sociali e ai loro consorzi.

La delega prevede un ampliamento dei settori di attività, ancora da fissare, e l’introduzione di forme di remunerazione del capitale sociale e di ripartizione degli utili, con limitazioni ancora da definire.
L’intervento più o meno “spinto” in questo campo indicherà che tipo di veste si vorrà dare all’impresa sociale. Prevedendo anche, come sta scritto nell’articolo 6 del decreto del governo, “la possibilità di accedere a forme di raccolta di capitali di rischio tramite portali on line, in analogia a quanto previsto per le start up innovative”, l’introduzione di titoli di solidarietà e altre forme di finanza sociale per trovare risorse e l’assegnazione possibile di immobili pubblici inutilizzati e beni mobili o immobili confiscati alla criminalità organizzata.

Il governo profila poi una “razionalizzazione delle categorie di lavoratori svantaggiati tenendo conto delle nuove forme di esclusione sociale”, disposizione che sta creando qualche perplessità nel mondo cooperativo e che dovrà essere chiarita con i decreti legislativi.

“L’attribuzione della qualifica di impresa sociale -spiega Luca Gori, ricercatore della Scuola Sant’Anna di Pisa-  abbandona il carattere facoltativo per diventare obbligatorio, e sarà assunto da tutte quelle realtà che hanno le caratteristiche per poterlo rivestire. Lo scopo è far emergere le imprese sociali che esistono, ma non hanno assunto questa qualifica. Rimane qualche perplessità, tuttavia, perché  un provvedimento in tal senso rischia di far aumentare il numero delle imprese senza far crescere e sviluppare il modello”. Un escamotage statistico.

Che succede al volontariato?
Fra gli enti che attendono di capire nel dettaglio che cosa sarà l’impresa sociale, ci sono anche molte associazioni che in questi anni hanno sviluppato, direttamente o tramite loro emanazioni, attività economiche vere e proprie riservate ai soci come ad esempio i circoli o i Caf (centri di assistenza fiscale). I loro obblighi, anche fiscali, dipendono in buona parte dal tipo di attività che vi viene fatta, ma nell’associazionismo di promozione sociale italiano è diffusa una certa preoccupazione sul perimetro dell’impresa sociale: solo i decreti legislativi chiariranno se saranno obbligate, o meno, ad assumere questa veste.

“Questi soggetti -spiega Venturi di AICCON- tengono dentro un pezzo di commerciale e un pezzo di dimensione associativa. La legge probabilmente li obbligherà o a staccare quel ramo commerciale e fare imprese sociali, oppure a ‘migrare’ verso l’impresa sociale, restando formalmente associazioni ma con la qualifica di impresa sociale nella misura in cui portano dentro attività commerciali. Questo, però, obbligherebbe anche a  sottostare ad un regime commerciale e fiscale perdendo però una serie di benefici”.

I confini fra la veste commerciale e quella non commerciale sono spesso poco definiti all’interno dello stesso terzo settore. Un dato inedito è emerso dall’ultima restituzione da parte dell’Istat del censimento sulle istituzioni non profit. Guardando alle attività svolte e classificando gli enti non profit a seconda della loro propensione “market” o “non market”, l’Istat ha rilevato che il 69,4% di loro possono essere definite market. Significa che il rapporto fra le entrate relative a contratti e convenzioni con istituzioni pubbliche e ricavi derivanti da vendita di beni e servizi e i costi di produzione è superiore al 50%.

Le stesse associazioni, di volontariato o di promozione sociale, vedranno anche una riforma delle leggi che disciplinano la loro attività. Anche in questo ambito la legge delega prevede delle novità e indica la volontà di rafforzare la promozione e la valorizzazione del volontariato. Fra le novità più importanti ci sarà la revisione del sistema dei Centri di servizio al volontariato e l’introduzione del registro unico nazionale del terzo settore, a cui dovranno iscriversi anche tutti gli altri enti.

Servizio civile, le novità sul “fronte”. Se la nuova impresa sociale riformerà profondamente il terzo settore italiano, anche per il servizio civile sono previste novità e i nodi da sciogliere sono ancora di più. Negli ultimi anni i volontari in servizio sono progressivamente diminuiti, e dai 57mila posti annuali del 2006 si è passati a 15mila nel 2014, con una previsione per il 2015 di 37mila volontari, di cui 11mila nell’ambito dell’iniziativa garanzia giovani avviato dal governo Letta e 22mila nei nuovi bandi del servizio civile nazionale.

“Sarà la legge di stabilità a definire un eventuale cambio di passo -spiega Francesco Spagnolo, responsabile di esseciblog.it-: far morire il servicio civile volontario significherebbe però condizionare anche tutti i passaggi collegati all’istituzione del servizio civile universale annunciata dal governo Renzi”. Nelle linee guida di riforma che avevano aperto la consultazione, si indicava l’istituzione del servizio civile universale per i giovani dai 18 ai 29 anni per la difesa civile della patria, con un contingente fino a 100mila giovani all’anno. Nella legge delega è confermata, con il coinvolgimento di enti pubblici e privati senza scopo di lucro.
“La riforma -spiega ancora Spagnolo- ha segnato passaggi rapidi, ed è stata occasione di vero dialogo con tutti i soggetti interessati. Ma rimangono degli elementi da chiarire. Ad esempio la governance: a chi sta in capo il servizio civile nazionale? Le Regioni non sono nominate, e non è dato sapere che ruolo avranno. La formula è generica ed esponenti del governo hanno parlato di varie ipotesi rispetto alla durata, che potrebbe essere inferiore all’anno. Nella delega, poi, si lascia molto margine per poter indicare queste forme nel decreto di attuazione, così come la compartecipazione economica ai costi, che è riportata in maniera molto velata tanto che gli enti si interrogano su che cosa significhi”.
 
Nel frattempo, invece, è sparita l’apertura del servizio civile ai cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia. Contenuta chiaramente nelle linee guida, non è prevista nel testo della legge delega. Sulla possibilità di accesso degli stranieri sono stati fatti diversi ricorsi in questi anni, rivolti ai singoli bandi. Le pronunce di alcuni Tribunali hanno stabilito il loro diritto a partecipare, ma la questione è politica: rifacendosi il servizio civile universale al concetto di difesa della patria sancito nell’articolo 52 della Costituzione, permettere l’ingresso agli stranieri potrebbe in sostanza creare un precedente per l’apertura del servizio militare.
Nella legge delega, però, non esiste nemmeno un’esclusione esplicita, mentre l’esecutivo sta studiando forme di coinvolgimento differenti, in attesa anche di conoscere una sentenza dalla Corte di Cassazione che fa seguito a una serie di ricorsi per l’esclusione di cittadini stranieri in un bando del 2011.

Il “5 per mille” è scomparso, e così l’authority.
Nel frattempo, dal testo della legge delega sono spariti due elementi rilevanti che erano presenti nelle linee guida del governo. La prima riguarda la stabilizzazione dell’istituto del 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche a favore di enti non profit.
Non si parla più di “stabilizzazione”, ma di “riforma strutturale”, e si chiede ai decreti di determinare il limite di spesa in coerenza con le risorse disponibili.
La stabilizzazione per legge sembra quindi allontanarsi sempre di più e si dà mandato anche in questo caso alla legge di stabilità per trovare le risorse necessarie. Nel testo si legge anche di una razionalizzazione dei soggetti beneficiari e dei requisiti per l’accesso ai benefici, nonché dell’introduzione di obblighi di pubblicità da parte dei beneficiari stessi delle risorse che arrivano. Ci dovrà quindi essere trasparenza totale su come verranno utilizzati i soldi del 5 per mille per non incorrere in ancora non definite “conseguenze”. Da definire rimane anche l’altro enorme nodo fiscale: il riordino del regime di deducibilità e detraibilità dal reddito sulle donazioni per gli enti non profit. Una vera e propria giungla -in Italia ne esistono oltre 700 forme- che lo stesso presidente del consiglio Matteo Renzi ha definito “un casino”.

La seconda rimozione riguarda l’authority del terzo settore. Orfano ancora dell’Agenzia del Terzo settore, cancellata dal governo Monti, il non profit spinge affinché sia istituita un’autorità di controllo al pari di altri settori economici. Idea che però si scontra con i segnali di taglio alle agenzie pubbliche che il governo Renzi cerca di dare. “In questo contesto -commenta il portavoce del Forum del Terzo settore, Pietro Barbieri- è difficile pensare di ricostruire un’autorità quando se ne stanno abrogando altre, ma la questione è di centrale importanza”. Il governo per il momento ha scelto di demandare il potere di vigilanza a un’apposita “struttura di missione”. “Si tratta -commenta Luca Gori della Scuola Sant’Anna di Pisa- di una struttura che è stata introdotta per legge, e il cui compito è quello di svolgere programmi specifici in un tempo limitato. Non pare un soggetto adeguato né per collocazione né per identità”.

“Il registro unico del terzo settore faciliterà comunque l’opera di controllo -aggiunge Paolo Venturi-. Sulla riforma complessiva -conclude- si stanno alimentando delle aspettative. Dobbiamo riconoscere una volontà di mettere il non profit dentro un nuovo paradigma di sviluppo. Inoltre, questa riforma di fatto rompe la dicotomia fra commerciale e non commerciale dentro al non profit, definendo che cosa è l’utilità sociale. Gli aspetti da definire sono però ancora tanti”. —

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