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Opinioni

Una politica economica fondata sulle stime

I diversi Documenti di economia e finanza approvati tra il 2008 e il 2014 in Italia hanno previsto una crescita del Pil più alta del 14,2% rispetto a quanto avvenuto nella realtà. È su questi numeri però che, dopo l’avallo della Commissione europa, si fondano decisioni dell’esecutivo che toccano la vita di miliano di italiani, come quelle su gettito fiscale e riduzione del debito pubblico

Che cos’è il Def? Un libro dei sogni, uno studio accademico, uno strumento di programmazione? Probabilmente tutte e tre le cose. Nel caso del Documento di economia e finanza attualmente in discussione ed elaborato dal governo Renzi sembrano emergere due elementi che lo caratterizzano più di altri, e che in parte dipendono dalla natura stessa dello strumento in questione.
Il primo è costituito dall’eccessiva dipendenza delle attività di programmazione dalle previsioni di andamento del Pil e da variabili di matrice politica. L’impianto complessivo degli interventi si regge su previsioni di crescita dello 0,7 per il 2015, dell’1,4 per il 2016 e dell’1,5 per il 2017; in coerenza con queste stime, il rapporto tra deficit e Pil dovrebbe essere del 2,6 nell’anno in corso, dell’1,8 nel 2016 e dello 0,9 nel 2017. Da una simile sequenza dipendono le misure che il governo deve adottare per centrare gli obiettivi europei. In questo senso, il Def è una sorta di schema determinato in sede europea che deriva i suoi margini di azione dall’attendibilità delle previsioni su cui si fonda.

Ma tali previsioni sono attendibili?
Negli ultimi anni decisamente no. Nel caso italiano, le stime contenute nei diversi Def, tra il 2008 e il 2014, hanno previsto una crescita del Pil più alta del 14,2% rispetto a quanto avvenuto nella realtà; uno scostamento assai significativo che sarebbe stato ancora maggiore se non avesse già scontato le correzioni condotte ogni anno tra la versione originale del Def, varata entro il 10 aprile, e la nota di aggiornamento, intervenuta a settembre.
In altre parole, secondo le stime dei documenti ministeriali la ricchezza del Paese sarebbe dovuta crescere di circa una quarantina di miliardi l’anno in più di quanto non sia realmente avvenuto. Dunque, la Legge di stabilità -che rappresenta, per vari aspetti, l’emanazione del Def- si è costruita su valutazioni storicamente errate, che hanno avuto bisogno di correttivi e di clausole di salvaguardia proprio per blindare l’incertezza e l’approssimazione di stime, di cui francamente, al di là degli obblighi formali europei, non si capisce l’utilità.

Questa estrema aleatorità del Def è accentuata dal peso che i giudizi, decisamente politici, della Commissione europea esercitano nel rendere le medesime stime, e le misure ad esse correlate, più o meno credibili. In tal senso, pur in presenza di stime di cui si riconosce la provata fallibilità, la loro accettazione dipende, piuttosto che da parametri oggettivi, dalla fiducia riposta dall’Europa nell’azione del governo da cui tali stime sono presentate; una sorta di esercizio di stile, tanto importante quanto artificialmente retto sul consenso dei paesi più determinanti nelle scelte della Commissione europea.
Se infatti, la Commissione le accetta, anche le stime diventano numeri reali in grado di sostenere le manovre finanziarie italiane, a prescindere per molti versi da valutazioni più ponderate. Le vere clausole di salvaguardia per centrare traguardi quasi sempre sbagliati in sede preventiva sono riassumibili nella disponibilità europea a considerare credibile un Paese: si tratta forse di una semplificazione ma le vicende degli ultimi anni hanno fornito molte prove in tal senso.
Alla luce di ciò, della natura assai politica della tenuta del Def, allora risultano molto chiari alcuni dei numeri contenuti nelle oltre mille pagine di tale documento. Per avere il consenso europeo, serve un impegno importante nell’abbattimento del debito pubblico italiano che, in effetti, secondo le stime del Def dovrebbe scendere dal 132,5% del 2015 al 123,4 del 2018; una significativa riduzione da raggiungere con un mix di strumenti, uno dei quali, molto ideologico, è individuato in una forte ondata di privatizzazioni, a cominciare da quella di Poste. In termini di bilancio, queste dismissioni dovrebbero fruttare 2 punti di Pil in 4 anni, circa 32-33 miliardi di euro. L’altra sequenza, altrettanto rilevante, è rappresentata dall’aumento della pressione fiscale che dovrebbe salire, ancora secondo le stime del Def, dal 43,6% di quest’anno – avrebbe dovuto essere del 43,3 in base al Def del 2014 – al 44,1% del prossimo anno, per restare stabile nel 2017. Una pressione resa più marcata dall’incremento del peso delle entrate tributarie che saranno quest’anno pari al 30,3 e al 31,2 l’anno prossimo. Le stime possono essere sbagliate, ma i messaggi di politica economica devono essere molto chiari non tanto per gli italiani quanto per i grandi “decisori” del Vecchio Continente. Del resto, il nuovo “tesoretto” di 1,65 miliardi dipende da una stima fortunatamente sbagliata e dal consenso europeo a una minore riduzione del deficit, così come dipende dalle letture più o meno ortodosse la possibilità di sostenere che, conteggiando il bonus di 80 euro e non considerando le clausole di salvaguardia (!!), la pressione fiscale, invece di salire, scende. Nel mondo del Def, davvero, è possibile tutto. 

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