Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Interni / Varie

L’Italia è piena di vuoti

Esistono in tutto il Paese oltre 6 milioni di beni inutilizzati o sottoutilizzati. Norme -anche di rango costituzionale- garantiscono strumenti contro l’abbandono, che però non vengono adeguatamente utilizzati. Un viaggio dalla "città fantasma" di Consonno ai 555 spazi e luoghi censiti a Verona dall’associazione A.G.I.L.E.

Tratto da Altreconomia 172 — Giugno 2015

Consonno è una frazione del Comune di Olginate, in provincia di Lecco. A partire dai primi anni Sessanta un “conte” di nome Bagno decise di realizzarci quella che sarebbe diventata la “città dei balocchi”. Una speculazione edilizia fatta di archi, mosaici e minareto che richiese lo spianamento dei pendii (18.500 metri cubi di terra asportata), la distruzione degli appezzamenti agricoli e la cancellazione di ogni traccia del borgo antico preesistente (41mila metri cubi).  La sua sfavillante esperienza durò poco più di quindici anni, fino al 1980. Poi intervenne l’abbandono -interrotto da qualche festa improvvisata- che ha fatto di Consonno -e dei suoi 48mila metri cubi di edificato- una celeberrima “città fantasma”, destinata alla rovina.
Alla fine dello scorso anno il presentatore  televisivo Francesco Facchinetti -conosciuto come dj Francesco- lancia una proposta per restituire linfa al complesso, sostenendo d’esser disposto a realizzare -insieme a “finanziatori europei ed extraeuropei”- una non ben precisata “città dei giovani”.
Qualche mese e la campagna mediatica si sfalda: dopo sparuti sopralluoghi, l’uomo di spettacolo si ritira. La nuova frontiera imprenditoriale -riferiscono le cronache- è uno smartphone di ultima generazione, si chiamerà Stonex One. I riflettori nazionali si spengono e Consonno ritorna alla polvere, in attesa di una nuova sparata. Ma la “bolla Facchinetti” ha impedito di guardare a chi, come l’Associazione Monte di Brianza, un’idea di recupero e riuso di quegli spazi dimenticati l’aveva -e continua ad averla- tra le mani. Tanto d’aver lanciato nel febbraio 2015 un “manifesto” per la sua rigenerazione, fondato su un progetto che ha preso il nome di “Parco delle rovine”. Due laureandi del Politecnico di Milano -oggi architetti, Fabio Marino e Davide Traina- hanno dedicato a Consonno la tesi, puntando a restituire vita al borgo a partire dalle rovine del progetto di cinquant’anni fa.

Il primo passo è l’acquisto dell’area dagli eredi di Bagno, attraverso un azionariato popolare (“Buone azioni”), com’è già stato fatto altrove nel Paese. I proprietari dell’area nicchiano e il Comune di Olginate -nonostante abbia aderito nel maggio 2014 alla nascita del Parco locale d’interesse sovracomunale Monte di Brianza dove ricadono anche le rovine- sembra avere altri progetti di “sviluppo” urbanistico. Stando al Piano di governo del territorio, infatti, al posto delle rovine potrebbero precipitare insediamenti residenziali  (villette) per 250 persone.
Ma il tema del riuso e del riutilizzo (anche e soprattutto temporaneo, cui Altreconomia edizioni ha dedicato il manuale per il riuso temporaneo di spazi in abbandono, in Italia, “Temporiuso”) degli spazi abbandonati va ben oltre i confini del piccolo ed emblematico borgo di Consonno, allargandosi a tutto il Paese. Lo sa Giovanni Campagnoli, docente di Economia dai Salesiani del Don Bosco di Novara, che in merito ha scritto un libro intitolato “Riusiamo l’Italia” (Gruppo24Ore). Scorrendone le pagine si incontra un Paese “pieno di spazi vuoti”, con un patrimonio di oltre 6 milioni di beni inutilizzati o sottoutilizzati (“significa più di due volte la città di Roma, vuota”, sostiene Campagnoli) tra abitazioni e immobili pubblici e privati. “Lì c’è nuova occupazione” è il ragionamento di Campagnoli che si basa sulla raccolta e analisi di decine di esperienze di recupero e rilancio di immobili o spazi più o meno derelitti: start up creative, ambienti di co-working, incubatori di imprese e così via. “L’osservazione diretta di un centinaio di esperienze verificate in Italia di questo tipo -è la tesi di Campagnoli- conferma come realistico l’obiettivo che in ciascuno spazio si possano creare in media 3 posti di lavoro nel primo anno di attività, che raddoppiano nel terzo anno per arrivare (in alcuni casi) anche a 10 nel giro di cinque anni”.

Ipotizzando dunque che siano già idonei 21mila capannoni e 5mila negozi, “significa, nei primi anni, occupare già tra le 73mila e le 156mila persone”. Il portale riusiamolitalia.it mette in rete diverse buone pratiche: dal “Farm cultural park” di Agrigento al centro culturale Interzona di Verona, passando per lo spazio Grisù di Ferrara  (spaziogrisu.org) -sorto nei 4mila metri quadrati di una ex caserma dei Vigili del fuoco- e l’Officina Lieve (officinalieve.it) di Borgo San Lorenzo (nel Mugello), che in un capannone industriale privato e dismesso di 220 metri quadrati ha realizzato uno spazio dove tenere corsi per l’autocostruzione e il co-working. A fine maggio ha lanciato una campagna di finanziamento diffuso che si propone tra le altre cose l’acquisto di una segheria mobile -come racconta Pierpaolo Di Carlo-: “Ci troviamo in una zona a forte vocazione forestale, e l’obiettivo è quello del recupero degli alberi caduti e la loro trasformazione  in ‘legno urbano’”.
A metà maggio Campagnoli ha presentato il libro “Riusiamo l’Italia” presso l’Agenzia del Demanio, a Roma, insieme all’attuale presidente della struttura, Roberto Reggi (ex sindaco di Piacenza): “Per l’occasione ho portato con me l’elenco degli strumenti normativi a sostegno di percorsi di riutilizzo e riuso che già esistono, e che derivano da un importante articolo della nostra Costituzione che in pochi ricordano: il 118”. Al quarto comma si legge: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Ecco da dove deriva da ultimo -secondo Campagnoli- un articolo della legge Sblocca-Italia, e precisamente il 24 (“Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio”). “Quella parte del provvedimento -prosegue l’autore di ‘Riusiamo l’Italia’- ha sancito che spetta ai Comuni individuare i criteri in base ai quali cittadini singoli o associati possono presentare progetti con finalità di interesse generale. Ed è un risultato importante, soprattutto perché prevede la possibilità di agire con riduzioni o esenzioni di tributi”.

Qualche ente locale, in realtà, aveva già iniziato a muoversi anche prima del presunto incentivo contenuto nella legge. E ha potuto farlo anche grazie al “Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani” messo a punto da Labsus (Laboratorio della sussidiarietà, www.labsus.org). Trentasei articoli -dall’individuazione degli edifici alla rendicontazione, misurazione e valutazione delle attività di collaborazione- che 37 Comuni italiani hanno già deliberato di adottare (da Bologna a Ivrea, da Terni a Casal di Principe), mentre altri 71 (al 18 maggio 2015) stanno portando avanti la procedura per l’approvazione.

Il protagonismo degli enti locali, però, non è la norma. Chi in questi anni ha sostituito i Comuni in un’attività centrale per il riuso degli spazi com’è quella della mappatura sono coloro che l’edizione 2015 del report Wwf “Riutilizziamo l’Italia” ha di nuovo chiamato “abilitatori” (enablers). Uno è noto a chi legge Altreconomia: si tratta di Temporiuso.net (temporiuso.org), associazione milanese impegnata nella “riattivazione” di spazi aperti vuoti e che come detto ha curato l’omonimo “manuale per il riuso temporaneo”. Daniela Galvani, invece, fa parte di “[im]possibile living” (www.impossibleliving.com), un’altra realtà milanese che dopo l’esperienza dalla componente più sociale della mappatura ha intrapreso una via commerciale dando vita alla piattaforma “What a space” (whataspace.it, “Affitta spazi temporanei e crea esperienze indimenticabili”), “l’Airbnb degli spazi in disuso”, come spiega Galvani (in effetti la homepage è identica).

In Romagna è attiva dal 2009 l’associazione “Spazi indecisi” (spaziindecisi.it), che da Riccione a Faenza, da Ravenna a Forlì ha messo in rete quasi 150 “indecisioni” (colonie, discoteche, cave, capannoni industriali), ricostruendone la biografia -in collaborazione tra gli altri con il Comune di Forlì, la Provincia e la Regione-.
E poi c’è l’esperienza veronese di A.G.I.L.E. (associazioneagile.wordpress.com), nata a metà del 2012 grazie a un gruppo di architetti, un sociologo e un organizzatore di eventi. Tra i primi passi degli animatori di A.G.I.L.E.  c’è stata la riqualificazione di un sottopassaggio pedonale di Verona chiuso da vent’anni. Eventi, concerti, cineforum, appuntamenti di socialità: in due anni -dal 2013 all’aprile 2015- il tunnel ha ripreso vita e riaperto i battenti, sebbene l’amministrazione comunale  l’abbia frettolosamente inaugurato, installandovi semplicemente telecamere di sicurezza, senza praticamente avvisare chi per 700 giorni si era preoccupato di organizzare la sua rinascita. Ma Michele De Mori e gli altri membri del gruppo non si sono persi d’animo, dando così vita a un nuovo progetto chiamato “Oltre il vuoto. Mappatura dei luoghi in disuso e strategie di riciclo urbano”. “Tra il febbraio 2013 e il febbraio 2014 -spiega De Mori- abbiamo condotto un’operazione analitica di mappatura dei luoghi abbandonati della città di Verona. Volevamo quantificare in maniera precisa il fenomeno e dunque fotografarlo. E per questo è stato fondamentale l’aiuto fornito dagli ordini professionali”. Il risultato è impressionante: “Abbiamo censito 555 spazi e luoghi per una superficie complessiva di 2.636.570 metri quadrati -prosegue Michele-. Si tratta esclusivamente di ‘spazi completi’: terra-cielo (ovvero palazzine intere) oppure luoghi e piazzali con un chiaro utilizzo scomparso con il trascorrere del tempo. Non ci siamo soffermati quindi sugli spazi sfitti o gli appartamenti vuoti ‘isolati’, che avrebbero fatto schizzare la cifra totale verso le migliaia di unità”. Pubblico, privato, residenziale, commerciale, tutto è incluso. A.G.I.L.E. non l’ha solo schedato ma anche “graficizzato” e reso fruibile attraverso una mappa web con punti geolocalizzati. Circoscrizione per circoscrizione, con foto, indirizzo e informazioni. Conclusa quella che Michele De Mori chiama la “fase I” ecco il passo ulteriore: “Una volta identificati i luoghi andavano individuati i proprietari, per provare a portare avanti qualche progetto di recupero. Questo percorso però ad oggi non ha avuto  ancora una traduzione concreta. Nella realtà quotidiana ci siamo trovati con gli edifici più interessanti bloccati per cause legali, liquidazione, eredità o precarie condizioni statiche”. Perché, citando Campagnoli, siamo “pieni di vuoti”? “Il problema di base -ragiona De Mori- è che una società immobiliare continua ad avere dei vantaggi a non operare. Anche qui a Verona abbiamo casi di grandi superfici inutilizzate. Si tolgono gli infissi, si lasciano degradare gli ambienti in attesa di tempi migliori, non pagando così l’Imu, e poi si decide di abbattere”.
Le superfici inutilizzate mappate dall’associazione non bloccano la proliferazione dei centri commerciali su aree libere la cui realizzazione è prevista nei piani urbanistici: “Il viale che collega la città al casello di Verona Sud potrebbe accogliere fino a 5 centri commerciali nell’arco di due chilometri -racconta De Mori- ma fino ad ora nessun imprenditore ha fatto una mossa. Ma le previsioni ci sono”. La Regione sostiene percorsi di recupero edilizio? “Sì -risponde l’animatore di A.G.I.L.E.-, ma dipende come. Recentemente è stato approvato un piano di recupero edilizio che in caso di abbattimento e ricostruzione ex novo riconosce all’operatore l’80% in più della cubatura, il che mi lascia perplesso”. Per la sola mappatura di Verona, il gruppo di A.G.I.L.E. ha investito -con il contributo di una ditta privata che si occupa di illuminazione- “meno di mille euro”. Se tutti i Comuni prendessero esempio dal “caso veronese”, eseguendo l’operazione in proprio o incaricando qualche volitiva associazione del territorio, il “problema” della mappatura potrebbe essere risolto facilmente. Iniziando a recuperare l’esistente, davvero.

© Riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.