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Cultura e scienza / Approfondimento

La depressione non è un’epidemia

Dal 2006 in Italia è aumentato del 30% l’uso di farmaci antidepressivi, che ormai rappresentano fino al 2,4% della spesa del Servizio sanitario nazionale. Nel 2014, in media, ogni giorno ne sono state consumate 39,3 dosi ogni mille abitanti. Un effetto delle modifiche dei manuali diagnostici

Tratto da Altreconomia 175 — Ottobre 2015

Paroxetina, escitalopram, sertralina e citalopram sono i primi quattro principi attivi alla base dei farmaci antidepressivi più prescritti nel nostro Paese nel 2014. Che è stato l’anno del “picco” per il numero medio (39,3) di dosi di farmaco di quel tipo consumate giornalmente da mille abitanti. Incrociando i dati contenuti nel rapporto sull’uso dei farmaci in Italia curato dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), emerge che l’apice del 2014 segna una crescita del 30% in meno di dieci anni, dal 2006. “Per policy e tradizione -fa sapere però l’ufficio stampa di Aifa- la denominazione commerciale dei farmaci non viene comunicata, per non orientare il mercato”.

Limitiamoci quindi ai quattro principi attivi citati: fanno tutti parte del “gruppo” SSRI -che sta per “inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina”-, il preponderante della categoria, che è ricompreso nella lista di fascia A dei farmaci rimborsati dal Servizio sanitario nazionale (Ssn). Questi prodotti, da soli, rappresentano l’1,3% della spesa a carico del Ssn: 249,9 milioni di euro su oltre 19 miliardi complessivi.
Sommati agli “antidepressivi altri” e ai cosiddetti “triciclici”, la percentuale sale al 2,4%. Sono i segni di quella che Piero Cipriano, medico, psichiatra, psicoterapeuta oggi al lavoro al “San Filippo Neri” di Roma, uno degli oltre 320 Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC) d’Italia chiama la “società dei depressi”. Che non è solo italiana. Per l’Organizzazione mondiale della Sanità, la depressione colpisce oltre 350 milioni di persone (i dati sono del 2012, le stime di oggi parlano di almeno mezzo miliardo di individui). “Depressione maggiore e distimia colpiscono, nell’arco della vita, l’11,2% della popolazione (il 14,9% è donna, il 7,2% è uomo, ndr)”, si legge al capitolo “disturbi psichici” del portale del ministero della Salute. Una “pseudo-pandemia” per Cipriano, che nel 2015 ha pubblicato il libro “Il manicomio chimico” -edito da elèuthera- e ha impiegato parte del suo libro per una restituzione fruibile dell’inchiesta “Indagine su un’epidemia”, curata nel 2013 dal giornalista Robert Whitaker. Cipriano guarda con attenzione agli effetti sociali del “terzo Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” (DSM-III), del 1980, per il quale può essere “classificata come affetta da depressione” quella persona che dovesse avere cinque di questi nove sintomi: “stato d’animo di tristezza,  abbattimento”, “perdita di piacere e interesse”, “cambiamenti nell’appetito”, “disturbi del sonno”, “agitazione, irrequietezza o al contrario rallentamento”, “riduzione dell’energia, facile stanchezza e spossatezza”, “senso di valere poco, senso di colpa eccessivo”, “difficoltà di concentrazione, incapacità di pensare lucidamente”, “pensieri ricorrenti che non vale la pena di vivere o pensieri di morte e di suicidio”. “I manuali diagnostici americani, proprio a partire dal DSM-III del 1980, hanno cambiato la narrazione e la descrizione della depressione -ragiona Cipriano-. Per 2.500 anni, da Ippocrate in poi, hanno resistito due forme di tristezza: una endogena (senza causa, molto rara), e una esogena (con causa, reattiva, non patologica). Ecco, questa duplice visione della tristezza non esiste più, sono state equiparate”.

Le conseguenze sono diverse e Cipriano -che si definisce lo psichiatra “riluttante”- ne cita una, a titolo di esempio: “L’idea del lutto è cambiata. Nel DSM-IV del 1994 la tristezza per la perdita di una persona cara era considerata lutto se durava meno di due mesi, dopo di che era considerata depressione. Dal 2013 (DSM-5), il lasso di tempo si è ridotto a 2 settimane, dopo di che scatta la depressione. Questa progressiva riduzione del periodo fisiologico di elaborazione di una perdita è uno dei modi con cui sempre più persone si trovano, loro malgrado, reclutate nel mondo della patologia psichica. E questo semplicistico etichettamento diagnostico ha creato una sorta di manicomio metafisico, un mondo in cui la depressione diverrà (secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della Salute) la prima patologia dal 2020 in poi, e che già oggi è la principale malattia psichiatrica, dopo aver letteralmente surclassato la schizofrenia, prendendone il posto per attenzione e diffusione”.
Cipriano, che non è un antifarmacologo o un antipsichiatra, è contrario all’uso a pioggia di quelli che definisce i nuovi “cosmetici”: “Dagli ansiolitici agli antidepressivi, dati per ogni ombra che si staglia come somatizzazione, fobia, panico, bulimia, sindrome premestruale, malumore. E questi farmaci, che non sono affatto esenti da affetti avversi, non sono destinati ad essere assunti per qualche mese, come sarebbe saggio, ma di solito vengono prescritti e mai più tolti”.

A proposito di effetti avversi, colpisce rileggere il foglietto illustrativo del Prozac (SSRI, fluoxetina), farmaco che è distribuito nel nostro Paese da Eli Lilly Italia Spa, BB Farma Srl e San Giorgio Pharma Srl, e che dal 2007 può essere somministrato anche a “bambini ed adolescenti di età superiore agli otto anni”. “Quando assumono questo tipo di medicinali, i pazienti al di sotto dei 18 anni presentano un aumentato rischio di effetti indesiderati come il tentativo di suicidio, pensieri suicidari e atteggiamento ostile (soprattutto comportamento aggressivo, oppositivo e ira)”, ha scritto l’Aifa nell’aprile 2014.
La stessa, però, che nel paragrafo sulla “Appropriatezza d’uso dei farmaci”, tratta dal report annuale del 2014, dà conto di una sorta di inadempienza ricorrente nei “pazienti” chiamati in certi casi a mantenere il farmaco fino a 36 mesi: “La quota di soggetti che assumono antidepressivi in modo continuativo e appropriato -scrive infatti l’Agenzia- è appena il 20%, mentre circa il 50% sospende il trattamento nei primi 3 mesi di terapia e oltre il 70% nei primi 6 mesi”. Non una nota positiva, ma una “ridotta  efficacia del trattamento farmacologico”, “con conseguente aumento di complicanze nella popolazione esposta, nonché un aggravio di spesa per il Ssn”. Ed è proprio da questo punto che Cipriano si distingue nettamente, lui che nelle sue “cronache” suggerisce trattamenti con antidepressivi solitamente non più lunghi di 4-6 mesi. Perché le “persone non vanno considerate come corpi ma come esseri relazionali che in quanto tali hanno estremo bisogno di relazioni. Il medico prescrive se stesso, prima del farmaco, invece l’attuale modalità di presa in carico terapeutica si risolve spesso in una oggettivazione del paziente, ridotto a corpo malato da etichettare e aggiustare con molecole. Non voglio dire che una buona relazione risolva tutto, ma un confronto terapeutico empatico e caldo è necessario. Poi il farmaco può esserci, ma con dosaggi bassi e per un periodo di tempo più breve possibile”.

Il viaggio di Cipriano nella “psichiatria moderna” conduce più avanti anche nei luoghi della patologia autentica,  nelle stanze di quel “manicomio circolare” che alle pareti hanno immagini di pratiche ancora oggi attuali (l’elettrochoc), o le fasce di contenzione.
E proprio a ottobre viene lanciata una campagna di cui anche Cipriano è artefice. S’intitola “Slegalo subito” (www.confbasaglia.org) e si propone l’abolizione della contenzione a partire dai Dipartimenti di salute mentale. l’iniziativa fa seguito a quella più nota “Stop Opg”, che avrebbe dovuto raggiungere il suo obiettivo il 31 marzo 2015, con l’annunciata (e diversamente praticata) chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (www.stopopg.it).  Sul punto della contenzione è intervenuto nel mese di giugno anche il Comitato nazionale per la bioetica attraverso un parere. “Il ricorso alle tecniche di contenzione meccanica deve rappresentare l’extrema ratio  -si legge nel documento, su carta intestata della Presidenza del Consiglio- e si deve ritenere che, anche nell’ambito del Trattamento sanitario obbligatorio, possa avvenire solamente in situazioni di reale necessità e urgenza, in modo proporzionato alle esigenze concrete, utilizzando le modalità meno invasive e solamente per il tempo necessario al superamento delle condizioni che abbiano indotto a ricorrervi. In altre parole, non può essere sufficiente che il paziente versi in uno stato di mera agitazione, bensì sarà necessaria, perché la contenzione venga ‘giustificata’, la presenza di un pericolo grave ed attuale che il malato compia atti auto-lesivi o commetta un reato contro la persona nei confronti di terzi”.

Ma non è tutto. Il Paese che da otto anni lascia somministrare il Prozac a minori con età superiore a 8 anni sarebbe sprovvisto di una legge capace di disciplinare gli interventi contentivi su un paziente psichiatrico. “Non è rinvenibile una normativa specifica”, sostiene il Comitato nazionale per la bioetica”, anche perché “il principale riferimento […] sarebbe ancora da individuarsi […] nell’art. 60, regio decreto 16 agosto 1909, n. 615 (Regolamento sui manicomi e sugli alienati, attuativo della legge 14 febbraio 1904, n. 36)”.
È il paradosso di quel contesto in cui si articola il “manicomio chimico” descritto -da dentro- da Cipriano, che apre il suo testo con una citazione dalle “Conferenze brasiliane” di Franco Basaglia, padre della legge 180 del 1978 : “Il manicomio ha la sua ragione d’essere nel fatto che fa diventare razionale l’irrazionale. Quando uno è folle ed entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato”.
Eppure, dal 31 marzo di quest’anno, gli Opg avrebbero dovuto cedere la scena alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), che comunque non rappresentano ancora una soluzione soddisfacente per Cipriano. “Nella legge 81 del 2014 (recante disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, ndr) ci sono delle cose buone -spiega lo psichiatra del San Filippo Neri-, come il fatto che la durata dell’internamento non possa essere superiore alla durata della pena che il paziente sconta per il reato commesso, il che rappresenta un tentativo di cancellare quel fenomeno che era l’ergastolo bianco. Credo comunque che sia necessario modificare il codice penale agli articoli 88 (‘Vizio totale di mente’) e 89 (‘Vizio parziale di mente’) e l’incapacità di intendere e di volere, e la conseguente pericolosità sociale, che sostanziano, di fatto, l’internamento in Opg o nelle Rems”. —

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