Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Interni / Varie

La posta spedita in Borsa

Il prossimo 15 dicembre Poste Italiane spa e il ministero dello Sviluppo economico firmeranno il Contratto di servizio, in base al quale tra il 2016 e il 2019 lo Stato garantità all’azienda -recentemenre quotata a Milano- un finanziamento di oltre un miliardo di euro per garantire la continuità del "servizio pubblico". La nostra analisi (da Ae 176) dell’"operazione Piazza Affari", che non ha ridotto il debito pubblico: il nodo dei lavoratori e delle proprietà immobiliari

Tratto da Altreconomia 176 — Novembre 2015

Quando leggerete questo articolo Poste Italiane spa sarà una società quotata in Borsa, a Milano. Le azioni vengono scambiate a Piazza Affari dal 26 ottobre, e alcuni di voi o tra i vostri parenti -consigliati da un istituto di credito- potrebbero aver partecipato all’offerta pubblica iniziale (IPO), investendo qualche migliaia di euro per acquistarne un pacchetto -quello minimo è di 500 azioni-. Una scelta coerente, e probabilmente nel breve periodo anche redditizia: il fatturato è in crescita (del 21 per cento tra il 2013 e il 2015) e  nel triennio 2012-2014 l’azienda ha riconosciuto al proprio azionista unico, il Tesoro, dividendi pari a un miliardo di euro mentre l’ad Francesco Caio ha  spiegato che nel 2015 e nel 2016 verrà corrisposto agli azionisti l’80% degli utili societari.

La privatizzazione di Poste Italiane spa, però, riguarda tutti noi come cittadini, e non solo nella veste di possibili investitori: sul mercato finisce un’istituzione nata nel 1862, un anno dopo l’unità d’Italia. L’azienda avrebbe speso almeno 10 milioni di euro per la massiccia campagna pubblicitaria volta a promuovere la collocazione di 453 milioni di azioni, pari a poco più del 34,7% del capitale sociale. Tutto il resto per il momento rimane in mano pubblica, anche se le vicende di ENEL ed ENI (vedi Ae 175) c’insegnano che una volta iniziata la “dismissione” fermarla è difficile: in quei casi lo Stato è sceso intorno al 30 per cento, e non è più in grado di indirizzare le politiche industriali.
I claim pubblicitari scelti da Poste Italiane -“il cambiamento siamo noi” e “per il cambiamento basta un’azione”- danno conto di una rivoluzione, ma il pubblico forse non sa che c’è già stata: dal 2002 il bilancio aziendale chiude in utile, e ormai il vecchio core business dei recapiti vale meno del 15 per cento dei ricavi totali. Oggi le Poste Italiane spa sono soprattutto una banca, che al 30 giugno del 2015 raccoglieva -tra conti correnti Banco Posta e libretti di risparmio e Buoni fruttiferi “distribuiti” per conto di Cassa depositi e prestiti– oltre 370 miliardi di euro. E sono anche un importante gruppo assicurativo, che in pochi anni ha raggiunto una quota pari al 14% del mercato. Ciò che viene taciuto nei video pubblicitari e dalle illustrazioni che hanno accompagnato la quotazione in Borsa, concentrati sulla figura del portalettere, sugli uffici postali, sul recapito dei pacchi, gli “investitori istituzionali” -che hanno fatto incetta del 70% delle azioni loro riservate- lo sanno. Resta da chiederci se la privatizzazione di Poste possa essere utile per il Paese, dal momento che lo Stato non è alla ricerca di un socio industriale, operativo, di qualcuno che rafforzi le competenze aziendali, ma punta solo a “far cassa”, con un’operazione che è solo finanziaria e che non era stata indicata al governo tra quelle prioritarie nel piano di Carlo Cottarelli, commissario per la riduzione della spesa pubblica. Facciamo due conti: se tutte le azioni saranno vendute al prezzo massimo della “forchetta” indicata nel prospetti di quotazione, il ministero incasserà circa 3,4 miliardi di euro, pari allo 0,045% del debito pubblico complessivo del Paese (2.184,7 miliardi di euro a fine agosto 2015), e al 7% di quello cumulato nel corso dei primi otto mesi dell’anno (48,8 miliardi di euro).
Secondo Umberto Cherubini, professore associato di Matematica per le applicazioni alle scienze economiche,  finanziarie e sociali, dell’Università di Bologna, privatizzare “significa però rinunciare a flussi futuri, che lo Stato non incamererà, peggiorando così il suo merito di credito: ciò che incasso ora lo pagherò in ‘mancati dividendi’, e in futuro avrò meno soldi. Se avendo meno soldi cozzerò con i vincoli di Maastricht sugli equilibri di bilancio, dovrà fare altro: o riduco la spesa pubblica, o aumento le tasse”. Secondo Cherubini, inoltre, a questa dinamica se ne accompagna un’altra: “Normalmente ci si quota ‘a sconto’ -spiega Cherubini-: ciò significa che all’azienda viene riconosciuto un valore inferiore a quello effettivo, e questo serve a lanciare il prodotto, l’azione”. Lo sconto medio è intorno al 20%. Secondo Cherubini, ciò equivale -nel caso di Poste Italiane spa- a una perdita secca di quasi un miliardo di euro.
Quest’aspetto sarebbe acuito dalla scelta di “vender ‘tutto’ senza considerare l’aspetto conglomerato di quest’impresa, che fa mille cose, dalla gestione del risparmio postale alle assicurazioni, fino alla telefonia -spiega Carlo Scarpa, professore di Economia politica presso l’Università di Brescia e collaboratore del sito lavoce.info-. È una scelta ben precisa, che nasconde le inefficienze del servizio postale, il cui conto economico beneficia di tutto il resto. Se uno separasse il conto economico del servizio postale, emergerebbe una situazione complessa”.

Tra gli elementi “disordinati” della privatizzazione c’è anche la sottovalutazione relativa al patrimonio immobiliare della società, che nel prospetto informativo viene identificato solo in termini di superfici occupate, come se le proprietà fossero solo beni “strumentali”  all’esercizio delle attività d’impresa.
Quantitativamente, Poste Italiane spa è proprietaria di 3,1 milioni di metri quadrati. Se valessero in media appena mille euro al metro quadrato, parleremmo di oltre 3 miliardi di euro. Ma chiunque abbia girato l’Italia può rendersi conto che il patrimonio di Poste è fatto di immobili -spesso- qualitativamente superiori alla media, localizzati in zone centrali di pregio anche nei centri storici delle maggiori città. Prendiamo ad esempio la sede milanese di piazza Cordusio, 10.550 metri quadrati a cento passi dal Duomo: nel 2010 Poste Italiane spa l’ha ceduta a un fondo immobiliare italiano per oltre 50 milioni di euro, pari a quasi 4.800 euro/m2. Altreconomia ha chiesto a Poste Italiane spa se l’azienda abbia “realizzato una valutazione del valore del patrimonio immobiliare del gruppo”, ma al momento di chiudere il numero la risposta non è ancora arrivata.
Ha senso chiedersi che ne sarà degli immobili di Poste Italiane, dato che è in corso -da anni- una riorganizzazione delle attività, in particolare per quanto riguarda smistamento e recapito della corrispondenza (al 30 giugno 2015 risultano attivi 13.328 ufficio postali e poco meno di 2.400 centri logistici). Tra giugno e luglio, mentre l’azienda si preparava alla quotazione, ha ottenuto dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) il visto buono per avviare una modalità di recapito definita “a giorni alterni” nel 58,7% dei Comuni italiani: la riforma -da realizzare nell’arco di un triennio- ridefinisce il livello di servizio essenziale, al pari della volontà di chiudere o “razionalizzare” 455 uffici postali, che nella primavera scorsa ha scatenato le proteste degli amministratori pubblici di tutta Italia. Sarebbe scorretto, anche dal punto di vista industriale, considerare la rete degli uffici postali, anche quelli isolati, di montagna, come un retaggio del passato: nessun istituto di credito dispone di una struttura così capillare, con collegamenti telematici in grado di “spedire” denaro da Pantelleria alla Valle d’Aosta in pochi minuti. Secondo l’ex ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera, che di Poste è stato amministratore delegato, lo Stato perderà “il controllo di un’infrastruttura sociale insostituibile, di uno strumento di efficientamento dell’intera PA (dalla digitalizzazione ai servizi di sportello per altre amministrazioni centrali e locali, dalla posta certificata alle carte dei servizi) e di una fonte strategica di finanziamento del debito pubblico e degli investimenti del risparmio e assicurativi nonché servizi universali di pagamento a cittadini e imprese”. Critiche puntuali che non trovano eco, invece, nel mondo sindacale, che dovrebbe difendere oltre 140mila posti di lavoro. Nell’accordo sindacale siglato a fine settembre, e relativo al periodo d’implementazione del piano industriale 2015-2019, si parla invece di esodi volontari incentivati e di passaggi da full-time a part-time. I lavoratori vengono definiti eccedenze. —

© Riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.