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Approfondimento

I bilanci in paradiso

A un anno dallo scandalo “LuxLeaks”, e mentre in Italia fa discutere l’annunciato accordo tra Apple e Agenzia delle Entrate (qui l’intervista di Duccio Facchini di Altreconomia a Radio Popolare), l’iniquità fiscale dell’Unione europea a favore delle imprese multinazionali non è stata risolta. Anche Fiat Chrysler Automobiles (FCA) -oggi Ferrari si quota in Borsa a Milano- sotto la lente

Tratto da Altreconomia 177 — Dicembre 2015

Lunedì 16 novembre, nel pomeriggio, Sergio Marchionne non era a Bruxelles. L’amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles (FCA) avrebbe dovuto partecipare a un’audizione in programma al Parlamento europeo, ma ha declinato l’invito rivolto all’azienda dal gruppo di 45 parlamentari che fanno parte della Commissione TAXE. Si tratta di uno “special committee”, che da febbraio 2015 indaga tutte le misure che potrebbero portare a una riduzione del carico fiscale sulle imprese multinazionali. FCA, al pari tra gli altri di Google (che ha mandato un senior director), Amazon, Coca-Cola, Mc Donald’s, Philip Morris -tutte rappresentate da un vice-presidente-, IKEA (presente con l’head of corporate finance), avrebbe dovuto “contribuire” al lavoro della Commissione, che ha elaborato un dettagliato rapporto contenente raccomandazioni per rendere più equo il sistema fiscale europeo (è stato votato nell’ultima settimana di novembre, quando questo numero di Ae era già in stampa, durante una plenaria del Parlamento europeo, in programma a Strasburgo).
FCA non aveva accolto nemmeno un primo invito, per un’audizione in programma tra il 23 giugno e il 2 luglio scorso: la società nata nell’ottobre del 2014 dalla fusione tra Fiat e Chrysler, che ha sede in Olanda ed è quotata a Milano e New York, aveva risposto negativamente perché erano in corso da parte della Commissione europea indagini sul conto della controllata Fiat Finance and Trade, sospettata di aver ricevuto aiuti di Stato considerati illegali, dopo aver siglato un “accordo anticipato in materia fiscale” (la traduzione letterale del concetto di “tax ruling”) con il Lussemburgo. 

È il Granducato il Paese attorno a cui ruota l’attività della Commissione TAXE. Se non ci fosse stato lo scandalo “LuxLeaks”, che nel novembre del 2014 portò alla luce gli accordi fiscali siglati tra il 2002 e il 2010 dalle autorità fiscali lussemburghesi con più di 300 multinazionali, probabilmente i suoi lavori non sarebbero mai partiti, e così non avremmo ascoltato Alain Lamassoure -europarlamentare francese e presidente della Commissione TAXE- affermare “siamo obbligati a imporre lo stesso livello di tassazione sui profitti nei 28 Paesi dell’Ue”. E nemmeno Jean Claude Juncker, oggi presidente della Commissione europea ma primo ministro del Lussemburgo per diciotto anni, dal 1995 al 2013, spiegare che “l’attuale sistema di regole fiscali per le aziende è inadeguato e iniquo”. Non si era mai accorto di governare un Paese che a fronte di un prodotto interno lordo di circa 60 miliardi di dollari “ospita” ricchezze finanziarie di persone fisiche e giuridiche straniere per 370 miliardi di dollari, cioè sei volte tanto?

A livello globale, secondo le stime di Gabriel Zucman, assistant professor di Economia alla Università di  Berkeley, in California, la ricchezza finanziaria detenuta all’estero in paradisi fiscali è pari a 7.600 miliardi di dollari, cioè l’8% della ricchezza globale. Zucman -che ha pubblicato i suoi dati in un paper dell’autunno 2014 sul Journal of Economic Perspectives- stima in 190 miliardi di dollari il volume di tasse eluse in questo modo, ogni anno.
Secondo Oxfam Italia, che il 4 novembre 2015 ha pubblicato un dettagliato report nell’anniversario del “LuxLeaks”, la giustizia fiscale è il tallone d’Achille dell’Europa (www.oxfamitalia.org); per Eurodad, una rete presente in 16 Paesi europei che riunisce organizzazioni attive sui temi del debito e dello sviluppo (www.eurodad.org), l’Ue avrebbe addirittura un ruolo attivo nel “sostenere un sistema fiscale globale ingiusto”, come spiega il rapporto “Cinquanta sfumature di fisco creativo” (una sintesi in italiano è disponibile sul sito di Re:Common, www.recommon.org).

Eurodad ha analizzato le politiche fiscali di 15 Paesi, compresa l’Italia, nell’ambito della campagna “Stop tax dodging”. La traduzione di dodge, verbo transitivo, è eludere, come spieghiamo nel glossario a pagina 19, sciogliendo le sigle e gli acronimi più usati nella lingua franca dei paradisi fiscali. “Oggi la Commissione europea sa che l’iniquità fiscale ha conseguenze negative per le piccole e medie imprese nazionali dei Paesi membri, che devono competere con multinazionali che eludono le tasse” spiega ad Altreconomia Tove Maria Ryding, Policy and Advocacy Manager for Tax Justice di Eurodad. “Nonostante le dichiarazioni registrate nel corso dell’ultimo anno, i governi dei 28 Paesi dell’UE non hanno ancora messo a posto il sistema fiscale, e così le multinazionali possono continuare ad eludere” continua Ryding.
Ciò è possibile perché il rombo della Ferrari -società del gruppo FCA- che debutta col botto a Wall Street nella terza settimana di ottobre-, coprirà sempre il tonfo di una condanna per elusione fiscale, comminata nelle stesse ore e allo stesso gruppo. Il 21 ottobre, infatti, la Commissione europea ha stabilito che Fiat Finance and Trade ha beneficiato in Lussemburgo di un “tax ruling” fraudolento, che ha ridotto di 20 volte il volume dei profitti tassabili. È la vicenda che aveva portato l’azienda a declinare l’invito della Commissione TAXE. Secondo la Direzione generale per la concorrenza, Fiat avrebbe ridotto il proprio carico fiscale di una somma compresa tra i 20 e i 30 milioni di euro dal 2012. “La contestazione nei confronti di Fiat Finance and Trade riguarda meccanismi di ‘transfer pricing’, cioè la valutazione di beni e servizi scambiati infragruppo” spiega ad Altreconomia Mikhail Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia e autore del report sulla giustizia fiscale.
“La scelta di localizzare una filiale in Lussemburgo è senz’altro legata alla più bassa aliquota fiscale, da cui derivano extra profitti non tassati che finiscono nei ‘paradisi’. È importante, però, sottolineare anche che non è detto che la ricchezza rimanga lì, e non venga invece reinvestita tramite finanziarie che da quei Paesi operano -sottolinea Antonio Tricarico di Re:Common-. C’è poi un altro aspetto ancora più importante, che è la segretezza: ogni paradiso fiscale copre la vera proprietà delle società. Questa caratteristica non ha prezzo, e conta anche più delle tasse non pagate. Da ciò discende l’importanza delle fughe di notizie, i leaks”. Le considerazioni di Tricarico trovano conferma nei dati dell’UNCTAD, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, secondo cui negli anni tra il 2008 e il 2012 in media gli investimenti diretti esteri provenienti da paradisi fiscali sono stati il 27% del totale, in aumento rispetto a una media del 19% registrata negli anni 2001-2005. Ed è sempre l’UNCTAD a indicare i Paesi in via di sviluppo tra quelli che più “soffrono” la dinamica che porta le multinazionali a spostare verso i paradisi fiscali i propri profitti, per eludere il fisco: l’organo delle Nazioni Unite stima il volume dell’elusione in 450 miliardi di dollari, il che significa circa 90 miliardi di dollari di mancate entrare fiscali, considerando un’aliquota media del 20 per cento. 

Mikhail Maslennikov di Oxfam Italia elenca una serie di provvedimenti che secondo l’organizzazione non governativa potrebbero rendere più controllabile e ridurre il fenomeno. “Gli accordi fiscali, i ‘tax ruling’, dovrebbero essere pubblici: il cittadino deve poter conoscere le agevolazioni fiscali concesse a big player, a potenziale svantaggio del cittadino-contribuente e delle piccole e medie imprese. Serve maggiore trasparenza finanziaria: ogni gruppo multinazionale con utili globali dev’essere obbligato alla rendicontazione ‘Paese per Paese’, evidenziando dove fa profitti e quanto paga in imposte in modo disaggregato, sussidiaria per sussidiaria. Questa misura, già in vigore dal 2015 in Europa per i settori bancario e forestale-estrattivo, dovrebbe essere estesa a tutte le multinazionali attive nei Paesi UE. Oxfam –continua Maslennikov- chiede inoltre l’istituzione di una blacklist europea dei ‘paradisi fiscali’, basata su criteri oggettivi e accompagnata da sanzioni e penalizzazioni contro quelle giurisdizioni e corporation che non rispettano gli standard europei di corretta governance fiscale. L’Europa deve prendere ufficialmente atto che alcuni suoi Paesi membri come Malta, Cipro, Lussemburgo, Irlanda e Paesi Bassi rappresentano inaccettabili giurisdizioni offshore e intervenire di conseguenza.”.

Le “ricette” di Oxfam sono anche quelle della campagna “Stop Tax dodging”, che il rapporto di Eurodad declina poi per ogni Paese. E per quanto riguarda l’Italia arriva una sonora bocciatura. “Lo scorso anno l’Ue negoziava nuove regole per prevenire il riciclaggio di denaro e avevamo giudicato positive le uscite del governo italiano in favore della trasparenza, che sottolineavano il diritto a conoscere chi effettivamente sia il proprietario delle imprese attive nei Paesi membri.
Ciò rende ancora più deludente verificare che oggi, quando regole in tal senso sono state implementate a livello nazionale, l’Italia non è disponibile a garantire un accesso pubblico pieno e aperto alle informazioni relative alla proprietà delle imprese italiane” dice ad Ae Tove Maria Ryding di Eurodad.
“In merito all’esigenza di garantire al pubblico informazioni sul carico fiscale per le multinazionali in ogni singolo Paese in cui operano, la posizione del governo italiano non è chiara. Speriamo, ovviamente, che l’Italia voglia supportare le esigenze di trasparenza.
Ci preoccupa, infine, che l’Italia stia indebolendo la propria legislazione fiscale. Ad esempio -conclude Ryding- ha introdotto la controversa misura conosciuta come ‘patent box’, che riconosce un regime fiscale speciale per i redditi frutto di proprietà intellettuale, come marchi e brevetti: è uno dei meccanismi utilizzati più frequentemente per ridurre la base imponibile”. L’Italia è uno dei 12 Paesi europei a prevedere un regime di “patent box”, che nel 2017 ridurrà del 50% il carico fiscale sui redditi brevettuali (che corriponde a un’aliquota del 15,7%). È stato introdotto nel gennaio 2015, con il dl 24  convertito in legge a marzo (l. 33/2015). Eppure già nel 2014 era arrivato il monito della Commissione europea: “I ‘patent box’ sembrano più utili a trasferire gli utili che a stimolare l’innovazione”. —

L’evasione in termini
La lingua franca dei paradisi fiscali è un inglese pieno di acronimi. Uno dei più importanti è BEPS, che sta per Base Erosion and Profit Shifting, cioè “erosione della base imponibile e trasferimento degli utili”: riduce il gettito fiscale nel Paese dove gli stessi sono conseguiti e li sposta verso un “tax haven”. Questo obiettivo può essere ottenuto anche siglando dei “tax ruling”, cioè accordi preliminari di tassazione, scritti dall’autorità fiscale di un Paese. Essi riguardano, spesso, meccanismi di “transfer pricing”, cioè i prezzi di trasferimento di beni e servizi tra società di un medesimo gruppo. Tra i meccanismi elusivi ci sono poi i “patent box”, regimi fiscali speciali relativi agli utili riconducibili ai brevetti. Per affrontare questi problemi potrebbero servire CBCR (Country-by-Country Reporting), rendicontazione pubblica Paese per Paese degli utili conseguiti e delle tasse dovute e pagate, e CCCTB, cioè la previsione di una “base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società”. Per introdurla serve una Direttiva UE. In stallo dal 2011.

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