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Messico, in un libro l’odissea dei migranti

Flaviano Bianchini s’è finto un latinoamericano, e ha viaggiato senza documenti dal Guatemala agli Stati Uniti d’America. "Migrantes" è il diario di un itinerario lungo 3 settimane -a piedi, in treno, nel doppiofondo di un camion-, e racconta le minacce e i rischi che vive ogni giorno chi -costretto a lasciare il proprio Paese- è deciso a realizzare il "sogno americano"

Papa Francesco, che venerdì 12 febbraio atterra in Messico, toccherà durante la sua permanenza le due frontiere del Paese. Andrà in Chiapas, porta d’entrata dei migranti centroamericani nel Sud-est del Paese, e a Ciudad Juarez, nello Stato di Chihuahua, sul confine con gli Stati Uniti d’America. Lo stesso itinerario Sud-Nord descritto da Flaviano Bianchini nel libro "Migrantes", un diario scritto dopo aver raggiunto Tucson, in Arizona, da "indocumentado", partendo dal Guatemala. 
Nella prima scena Bianchini, biologo e fondatore della Ong Source International, che si occupa di supporto scientifico alle comunità che subiscono violazioni dei diritti umani, specialmente quando sono vincolate a grandi imprese estrattive, è in fila nell’ufficio postale del Paese centroamericano. Quando arriva di fronte all’addetta le consegna una busta: contiene il suo passaporto, che sta spedendo a casa di un amico, a Città del Messico. È il punto di non ritorno: da quel giorno, e per i successivi 21, Flaviano cambia nome e nazionalità, cambia lingua e mestiere.
È Aymar Blanco, peruviano, e in Guatemala è arrivato imbarcato su un peschereccio.
Flaviano, che è pienamente bilingue, abbandona la propria identità e sceglie di diventare uno tra i tanti disperati che attraversano il Messico per realizzare il proprio "sogno americano" -per definire la dimensione del fenomeno basti pensare che tra ottobre 2014 ed aprile 2015 oltre novantamila persone sono state "deportate" dalla frontiera Sud del Paese, mentre altre 70mila, prevalentemente centroamericani, sono stati espulsi dagli USA-.
"Migrantes" è un libro necessario, pubblicato nell’autunno del 2015 dalle edizioni Biblioteca Franco Serantini (BFS): dopo averlo letto nessuno potrà dire "io non sapevo".


Quando e perché hai scelto di scrivere questo libro?
Avendo vissuto molti anni in America Latina più volte mi sono “scontrato” con la realtà della migrazione verso il nord. Ci sono Paesi come El Salvador dove quasi un quarto della popolazione vive negli USA: ogni persona che incontri ha un amico o un parente che ha fatto quel viaggio, o magari è lui stesso ad averci provato, ma dopo esser stato scoperto è stato ‘deportato’. Quando ho scoperto che nessuno aveva mai raccontato questa storia mi sono sentito quasi “in dovere” di farlo. E così è nata l’idea del viaggio. L’organizzazione è stata relativamente breve e facile, anche perché più tempo passava e più mi venivano dubbi sulla fattibilità della cosa. 
A scrivere il libro, invece, ci ho messo quasi tre anni: rielaborare ed assimilare certe esperienze vissute mi ha preso molto tempo.

Appena entrato in Messico dal Guatemala, scopri che la ferrovia del Pacifico non c’è più, e per raggiungere il centro del Paese sali nel doppiofondo di un tir, che viaggia attraverso il Sud del Messico tra Chiapas e Tabasco. Prenderai poi il treno (merci) a Tenosique. Quanto dura quel viaggio nel viaggio? Hai avuto paura per la tua vita?
Il viaggio nel doppiofondo del tir dura circa 24 ore. Eravamo una quarantina di persone, rannicchiate e distese testa-piedi. Una situazione davvero al limite delle proprie possibilità. Che si ripete anche sul tetto del treno, al freddo e al caldo, senza poter dormire (altrimenti si rischia di cadere), con poco cibo e pochissima acqua. È un viaggio estenuante, anche se l’adrenalina ti aiuta ad agire con freddezza. È dopo che ti viene la paura e ti rimane, per un periodo lungo.

Più avanti nel tuo itinerario vieni fermato e sei costretto a passare alcuni giorni in carcere. Perché? E perché non vieni, successivamente, espulso? Cosa hai capito della polizia messicana?
Di fatto la polizia messicana ci ha sequestrato: non lo possiamo definire un arresto, perché non ci hanno preso le identità né ci hanno letto un capo di imputazione. Siamo stati semplicemente derubati di tutto, e poi chiusi in una cella di 4 metri per 4. Eravamo più di trenta persone: è stato il momento più difficile di tutto il viaggio. Immaginatevi su un autobus all’ora di punta per 48 ore, col caldo, le mosche e la gente che continuamente si sentiva male e vomitava. Una situazione da girone dantesco.
Dopo due giorni la polizia ci ha semplicemente lasciato andare. Probabilmente non sono riusciti a venderci e serviva la cella libera, per il carico successivo.
Che cosa ho capito della polizia messicana? Ho solo avuto la conferma di ciò che tutti sanno, ovvero la forte collusione della polizia con la criminalità organizzata.

Hai condiviso il tuo itinerario con decine di persone. Questa esperienza in qualche modo ha cambiato la tua idea di "fiducia nell’altro"?
È una cosa strana. Il migrante non è mai da solo ma è sempre da solo. Non si è mai in completa solitudine, si è sempre in gruppi numerosi, ma al tempo stesso non si lega mai con nessuno. Perché non sai chi è il tuo vicino, e potrebbe essere anche uno che alla prima occasione ti vende o ti deruba. E poi c’è una sorta di istinto che porta a non legare con gli altri, perché, in fondo, gli altri migranti sono dei concorrenti: se il treno viene assaltato (e viene assaltato continuamente) io devo correre più veloce degli altri e sperare che prendano gli altri e non me. E questo viene più facile con degli estranei che non con delle persone con le quali si è in qualche modo costruito un legame.

Mentre cammini in montagna nello Stato di Veracruz con 3 compagni vieni rifocillato da una famiglia contadina, e accolto nella loro povera casa. Quanto queste forme di solidarietà aiutano il migrante, materialmente ma anche psicologicamente?
L’aiuto materiale è sicuramente importante. Un pasto caldo, un fuoco su cui scaldarsi e dell’acqua sono fondamentali in certe situazioni. Ma il grosso dell’aiuto è di tipo psicologico: un migrante si confronta ogni giorno con il peggio del peggio che l’umanità è in grado di produrre. Questi raggi di luce ti danno una forza incredibile. Non ti fanno sentire solo ed abbandonato. E questo è importantissimo.

Scarpe rotte e uno zaino vuoto. In tasca nessun documento. Che cosa si prova?
È una sensazione del tutto nuova per noi occidentali, abituati ad avere mille certezze. In quella situazione non ne hai nemmeno una. Ma io mi facevo forza pensando alle migliaia di persone che vivono quella condizione non per scelta, come me, ma solo perché quando assegnavano le fortune della vita a loro non è toccata quella di un passaporto europeo.

Quanto hai speso, a quanto ammonta il totale delle "mazzette" che hai dovuto distribuire per terminare il viaggio? Quanto costa un volo di linea da Tapachula a Tucson?
In totale ho speso circa un migliaio di dollari, ma sono stato molto fortunato: a molti il viaggio costa anche 3-4.000 dollari. Se poi si viene sequestrati la cifra può salire oltre i 10mila, mentre per un volo aereo sarebbero sufficienti 100 dollari.

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