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Opinioni

Elogio del custode

Sono gli statali di grado più umile: grazie a loro possiamo conoscere il museo e l’area archeologica di Cosa, all’Argentario. Per immaginare il legame tra paesaggio e patrimonio

Tratto da Altreconomia 182 — Maggio 2016

La dignità del patrimonio culturale è la dignità dei lavoratori che lo tengono aperto. Con amore, sacrificio, competenza. Difficile scrivere parole come queste, in un tempo in cui il ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini, ostenta per gli uomini e le donne del suo ministero -siano essi funzionari o custodi- un sordo disprezzo. E invece io voglio fare l’elogio dei custodi, degli statali di grado più umile: quelli che il presidente del Consiglio sospetta e accusa, a prescindere, di essere fannulloni. E voglio farlo perché il 25 marzo ho passato una mattinata da sogno in un piccolissimo museo della Repubblica, e nella circostante area archeologica: un museo modello per allestimento e apparato didattico. Un museo in cui i custodi hanno accolto me e la mia famiglia con l’umile dignità che competerebbe ai ministri (servitori, in latino) della Repubblica. Con discrezione, ma con quanta passione e quanta competenza, ci hanno parlato delle opere e dei reperti conservati, si sono mostrati orgogliosamente consapevoli dell’importanza della loro fedeltà a quel patrimonio che ci fa cittadini. Una volta tanto, la bandiera italiana che pende sopra l’ingresso di quel museo è una bandiera onorata dai fatti. 

Quel museo -costruito dallo Stato italiano e dall’American Academy di Roma- è a Cosa, la città romana fantasma che sorge sul colle di Ansedonia, di fronte all’Argentario, tra Toscana e Lazio. Un luogo incantato, dove una natura mediterranea follemente vitale contende in meraviglia con le mura, le strade, i mosaici. E quando ti affacci dal colle dove sorge il muro diroccato del Campidoglio, vedi Orbetello e la sua laguna, e poi, di là dal mare, Porto Ercole e tutto il Monte Argentario: allora capisci che vuol dire l’articolo 9 della Costituzione, quando afferma che il “paesaggio e il patrimonio storico e artistico” sono una cosa sola. La più preziosa.

Il 18 aprile del 1937 venne in gita tra le rovine di Cosa uno che poi la Costituzione la scrisse: Piero Calamandrei. Che ne disse: “Tutte le fantasticherie che si possono sognare da una finestra che dà sul mare furono sognate quassù, più di duemila anni fa, da uomini ai quali noi somigliamo anche nel volto; ma anche le loro illusioni furono riassorbite in questa terra germinativa, in cui i resti delle case umane servono soltanto, come le spoglie della farfalla o gli scheletri dei greggi, a ricominciare in ogni aprile questa festosa apparizione di fiori”. E ancora: “il saper che in questa vegetazione che rinasce da millenni su questo strato sempre più spesso di macerie si sono mescolate e fuse le vicende umane che oggi per un istante si incarnano in noi, ci fa sentire per questa terra, anche per i suoi sassi e per i suoi arbusti una struggente tenerezza […]. Qui non si riesce più a capire dove finisca la roccia inanimata e dove cominci il segno lasciato dai viventi […]. Nello scendere per lo stesso sentiero mi sorprendo mentre mormoro tra me una parola nuova che mi pare, da quanto è misteriosa e fresca, inventata ora: ‘patria’. E passando accanto a un cespo di biancospino, fiorito su queste macerie, non so tenermi dal fargli, furtivamente, una carezza”. Parole rivoluzionare e sediziose, perché scritte in pieno Fascismo. Quasi come, oggi, vedere il volto della patria nel lavoro di tre custodi statali: al Museo di Cosa, Italia. 

Tomaso Montanari è professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli. Il suo ultimo libro è “Privati del patrimonio” (Einaudi, 2015)

 

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