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Opinioni

Sradicati da ri-appassionare

Tra gli studenti universitari sono sempre meno quelli che hanno un nonno contadino, che conoscono e sanno riconoscere l’importanza del suolo. Che ci nutre

Tratto da Altreconomia 182 — Maggio 2016

Quanti di voi hanno un nonno contadino?” chiedo ai miei studenti a inizio corso. Quest’anno hanno alzato la mano in tre su quaranta: ogni volta, sono di meno, ed è sempre più vicino il pericoloso break point, il momento in cui nella memoria dei nostri ragazzi non vi sarà il ricordo di qualcuno, un nonno o una zia, che ha passato loro quel misto di bello e sacro che è il senso della terra. 

La narrazione sul suolo sta uscendo dal perimetro familiare, e i giovani crescono con disinvoltura senza esperienza di terra e a colpi di centri commerciali destagionalizzati. Molti di loro faticheranno sempre più a riconoscere nei contadini che resistono delle figure positive, né si faranno cogliere dal dubbio davanti alla proposta dell’ennesima tangenziale che spalma asfalto sui campi. Per qualcuno questo divenire delle cose potrà sembrare eccessivo o catastrofico, invece io dico che è una minaccia attuale a cui dobbiamo pensare. La generazione precedente, quella che conquistò il “benessere” abitando sempre più le pianure -tra gli anni ’60 e ’70- si affrancò dalla fatica della terra, ma la terra l’aveva conosciuta: un certo numero tra loro è lì ancora a difenderla. La generazione attuale, e ancor più quella in arrivo, sono invece culturalmente più sradicate dalla terra, non avendo inciampato in una narrazione che abbia mobilitato in loro passione culturale. C’è il rischio che fra pochi anni tecnici, politici, insegnanti e cittadini, chiamati a partecipare alla vita delle loro comunità, vuoi per votare o per esprimersi sulle scelte di un piano o per accettare un progetto, saranno meno sensibili e meno capaci di opporre argomenti “salva-suolo”, perché semplicemente non se li porranno o non li avranno o, se li avranno, saranno deboli e discutibili. Già ora i nostri candidati romani e milanesi non hanno l’ossessione del suolo e del paesaggio e i giovani non gli chiedono di averla. Che fare? L’antidoto più a portata di mano per opporsi a questo smarrimento culturale è la scuola, luogo di resistenza etico per eccellenza (Massimo Recalcati), dove si entra bambini e si esce cittadini (Piero Calamandrei). La scuola deve intuire che questa sfida l’attende e prepararsi. Oggi il suolo è solo una piccola parentesi del programma di scienze, sempre che rimanga tempo dopo il Tyrannosaurus rex. Raramente la narrazione scolastica buca la barriera dell’anaffettiva descrizione per diventare qualcosa che mobilita e appassiona gli studenti a diventare cultori della cura dei suoli per il domani. Anche nelle università si spiega poco o nulla cosa è il suolo: per ingegneri, architetti, urbanisti, giuristi ed economisti il suolo è più o meno una superficie su cui appoggiare un edificio o una strada, o una merce da vendere e mettere a bilancio, o un comma di legge o un bene da testamento. Invece il suolo ha bisogno di cittadinanza nelle nostre scuole. Mi appello allora a maestri e professori: generate percorsi narrativi, belli, che producano non solo conoscenza, ma consapevolezza e coscienza; affascinate e mobilitate i nostri ragazzi a riconoscere la terra come risorsa bella, viva, non rinnovabile, scarsa e non esclusiva; fate capire che quel che vedono, il loro Paese, affonda le radici nel suolo. Prendersene cura deve diventare “cool”. Deve radicarsi in ognuno l’idea che “noi poggiamo i piedi sul suolo, non sulla Terra” (Ivan Illich): degradarlo e consumarlo deve divenire un tabù. Una pedagogia del suolo è il miglior antidoto culturale per generare cittadini e società migliori, più giuste e resilienti. Agli insegnanti consiglio, per iniziare, www.soils4teachers.org.

 

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