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Commercio equo per tutti. Forse.

O forse un dejà-vu. Il rischio di una deriva "mainstream" del movimento del commercio equo e solidale mondiale fa ancora capolino dietro gli effetti di una crisi economica senza precedenti. Con la scusa di aprire maggiori mercati ai produttori si aprono, in realtà, le porte alle grandi corporation e gli effetti potrebbero essere prevedibili. Perché se non si incide sul potere di mercato dei grandi gruppi un commercio realmente equo e solidale non potrà essere "for all".

"Secondo i dati della Banca Mondiale, più di 2 miliardi di persone vive con meno di due dollari al giorno. L’attuale modello di commercio equo e solidale raggiunge solamente una piccola percentuale di questi. Il Commercio equo può e deve fare di più". Fin qui, nulla di nuovo sotto il sole. L’appello di richiesta di sostegno da parte di Fair Trade USA alla nuova campagna "Fair Trade for All" si basa su un’analisi più che ovvia, dimenticando forse di aggiungere che con la crisi economica, determinata dalla deregolamentazione dei mercati soprattutto finanziari,  nel 2009 il numero di persone condannate alla fame aveva superato la soglia psicologica, ed umanitaria, del miliardo.

Ma questa constatazione non è la conclusione degli ultimi anni vissuti pericolosamente tra una crisi ed una povertà dilaganti, ma l’incipit di un documento che vorrebbe giustificare lo sganciamento di Fair Trade USA, il principale certificatore equosolidale statunitense, dal resto del movimento mondiale in questo caso rappresentato da FLO.
Il problema sta tutto in una questione oramai annosa: aprire o non aprire al mercato "mainstream", cioè alle grandi corporation con i loro volumi stellari e le loro reputazioni da ripensare? E se sì, quanto e come, per evitare un’annacquamento dei criteri e della credibilità di un movimento oramai sulla soglia dei sessant’anni?
Gli obiettivi li spiega Paul Rice, CEO di Fair Trade Usa in un’intervista dell’ottobre scorso, dove ricorda come l’ambizione sia "raddoppiare i nostri volumi ed il nostro impatto in tutto il mondo per ogni categoria di prodotti in cui stiamo lavorando".
Far diventare il Commercio equo "mainstream", lavorando sulle quantità grazie all’ingresso di nuovi attori soprattutto privati, partendo da una tendenza che è già di forte crescita, se è vero che le vendite dei prodotti certificati negli Stati Uniti è esplosa del 63% nel secondo quarto del 2011.
La risposta, forte e dal basso, arriva dalle pagine del "Guatemala Times" dei primi di dicembre, dove la rete di contadini del Mexican Coordinator of Small Fair Trade Producers critica duramente la scelta statunitense come una progressiva "neoliberalizzazione" del movimento, ricordando come "il sistema neoliberista sia in piena crisi e come [il movimento] abbia la responsabilità di costruire un altro modello: democratico ed equo per tutti, compreso il nostro pianeta".
Sembra un problema d’oltreoceano, più legato all’immaginario statunitense che ad un vero problema di sostanza.
Ma la sostanza esiste e si chiama nuovo marchio di certificazione, che Fair Trade Usa ha scelto di proporre e lanciare come alternativo a quello convenzionale. E dall’altra parte si chiama rischio di contagio, perchè lettura poco ortodosse ci sono anche nella vecchia Europa, come ci ricorda Barbara Crowther, portavoce della Fairtrade Foundation inglese, in una recente intervista a Bloomberg: "per espandere i benefici del commercio equo noi dobbiamo diventare mainstream. E’ una sfida, ma siamo determinati nel farlo con integrità. Abbiamo fatto un grande sforzo per migliorare e professionalizzare il sistema di certificazione, e ci stiamo ancora lavorando".

Nessuno discute che maggiori risorse ai produttori siano un beneficio per quelle comunità, ma il punto di vista può essere anche diverso. La certificazione di prodotto permette ad un licenziatario di avere una linea equosolidale in mezzo ad una grande quantità di prodotti non certificati. D’altra parte lo sfruttamento sul lavoro e i bassi salari sono la conseguenza, e non la causa, di un dato di realtà: il market power delle grandi imprese. Che per come sono strutturate le filiere possono agire in modo predominante, imponendo costi e prezzi ai produttori ed ai consumatori. La liberalizzazione dei mercati, per giunta, nei settori dov’è stata fatta ha portato ad una progressiva semplificazione dello scenario, selezionando in modo darwinistico i più adatti e cancellando la maggior parte degli altri attori.

Davanti a questa situazione, oramai da anni davanti agli occhi di tutti, pensare di ampliare ii benefici (non solo i fatturati) del commercio equo con il mero ampliamento alle grandi corporation senza mettere in discussione il potere di mercato di queste ultime è pura utopia. Se non vera manipolazione.
Il rischio è anzi il contrario, e cioè rafforzare la reputazione di imprese che per loro natura e struttura dei mercati non potranno fare altro che imporre le proprie politiche commerciali, che saranno tanto più sostenibili quanto più convenienti economicamente. Ed accettare politiche di liberalizzazione dei mercati, invece di una loro progressiva ri-regolamentazione, che andranno a sostenere i più forti sacrificando le comunità più piccole e la stabilità del pianeta. In Messico chiedono un forte ripensamento non solo al movimento statunitense, ma anche a quello mondiale.
Forse sarebbe opportuno ricominciare a parlarne.

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