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Opinioni

Questo patrimonio non s’ha da fare

Ancora una volta, lo sfruttamento delle città d’arte e lo scadimento a feticcio commerciale del patrimonio artistico e storico del Paese procedono affiancati. Tomaso Montanari, storico dell’arte e docente alla Federico II di Napoli, commenta intervistato i fatti di Venezia e le iniziative del governo presieduto da Matteo Renzi in materia di cultura

Tomaso Montanari, storico dell’arte e professore di Storia dell’arte moderna all’Università Federico II di Napoli è a Lecco per presentare il suo libro “Le pietre e il popolo” (edito da Minimum fax, 2013). Le notizie giunte nella mattinata di mercoledì sugli arresti a Venezia costituiscono il punto di partenza dell’intervista.
 
Professor Montanari, al di là dell’ordinanza di custodia cautelare e dell’inchiesta condotta dalla Procura di Venezia che vede coinvolti l’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan e il sindaco Giorgio Orsoni, come commenta oggi l’epilogo di una delle tappe del viaggio in Italia raccontate nel suo libro (il paragrafo s’intitolava “I padroni di Venezia”)?  
 
Prima di tutto segnalo che Giancarlo Galan non è soltanto l’ex governatore del Veneto, ma è anche il presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati nonché ex ministro dei Beni culturali. Quel ministro che ratificò l’incarico di direttore della Biblioteca dei Girolamini di Napoli per l’allora braccio destro di Marcello Dell’Utri, Marino Massimo De Caro. Nel merito: il Mose è una gigantesca operazione d’ingegneria che nasce alla fine degli anni 60 e che vorrebbe chiudere le bocche verso il mare Adriatico della Laguna di Venezia. Perché, ci si chiede, per dieci secoli non c’è stato bisogno di un sistema del genere? Perché la Laguna è stata oggetto di una costante manutenzione da parte della Repubblica Serenissima, che era consapevole del tempo di vita limitato e dunque tenuta a rispettare severamente determinate regole. Quelle regole che sono state sistematicamente violate, in maniera consapevole, dall’Unità d’Italia in poi, con un picco nel secondo dopoguerra. Si sono talmente approfonditi i canali di ingresso in Laguna, per far entrare le grandi navi turistiche, ma anche quelle industriali, che la Bocca di Malamocco -una delle bocche della Laguna- è il punto più profondo dell’Adriatico: 57 metri. L’ecosistema, quindi, ha completamente perso la capacità di autoregolarsi. Venezia ha deciso che doveva sacrificare questo ecosistema, smettere di governarlo, per poi rimediare semmai meccanicamente. Come se uno di noi, a grave rischio di infarto, andasse dal medico e questo gli dicesse “mangia quanto ti pare, stai fermo, poi alla fine ti facciamo una bella angioplastica”. Per scoprire poi che quel medico è anche il chirurgo chiamato ad operare. Venezia ha affidato il Mose a un consorzio privato -il Consorzio Nuova Venezia- di aziende private che hanno interessi nel Mose. La Repubblica non avrebbe mai affidato la salvezza pubblica a un consorzio di imprenditori con interessi commerciali. Al di là dell’inchiesta, questo è l’ultimo capitolo del suicidio di Venezia. Una città che per essersi totalmente genuflessa e prostituita al turismo internazionale intensivo -di bassissima qualità, mordi e fuggi- sta morendo. Venezia aveva 150mila abitanti dopo la Guerra, ora ne ha 58mila. Ne aveva 190mila alla fine del Cinquecento. Questo è il destino della “grande Disneyland”, guidata da un sindaco (Orsoni) che aveva sposato con entusiasmo il progetto di torre di Cardin e che sarebbe stato l’edificio più alto d’Italia -250 metri- in grado di permettere di “vedere Venezia dall’alto”. Promettendo ai giovani veneziani un futuro da osti e camerieri. Che pur dignitosissimo non può essere la monocultura di una città. È questo turismo intensivo che ha portato alla distruzione della Laguna, dunque, e alla distruzione fisica delle pietre di Venezia ma anche del suo tessuto civile. Le pietre e il popolo collegate da una vita e ora, forse, anche da una morte.
 
Domenica scorsa, al Festival dell’Economia di Trento, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha annunciato l’avvio del provvedimento “Sblocca Italia”. Una lettera, spedita a tutti i sindaci d’Italia, per iniziare a censire e a “rimuovere” gli ostacoli alle “cose da fare”. Che ne pensa?
 
Non esiste alcun diritto di vita e di morte sopra il proprio territorio. Questo vale per i singoli, ma anche per le amministrazioni. Renzi, da sindaco ad altri sindaci, sancisce che è giunto il momento di “fare ciò che volete”. Prima di tutto c’è da chiedersi secondo quali percorsi partecipativi si forma il parere dell’amministrazione e se e come è realmente coinvolta la cittadinanza. E anche nel caso in cui un’amministrazione comunale decidesse, al netto di conflitti di interessi o corruzione, che un certo giardino pubblico va cementificato o che una piazza storica debba essere sventrata per far posto a un parcheggio sotterraneo, si troverebbe in Italia dinanzi a un bilanciamento di poteri. Come esiste una magistratura non elettiva, esistono le sovrintendenze. Renzi ha detto che “sovrintendente” è la parola più brutta del vocabolario italiano, perché “spezza ogni entusiasmo dalla seconda sillaba”. A quale entusiasmo faccia riferimento -se della cittadinanza o dei palazzinari- non è chiaro. In Italia esistono le sovrintendenze perché da sempre, dai Papi e dai Dogi, dai Duchi e dai Granduchi, si pensava che il potere sovrano non fosse titolato a decidere per chi non c’è più e per chi ancora non ci sarà. Le sovrintendenze tutelano chi non vota. Questa strada del “ditemi cosa volete fare e lo farete” o “sblocchiamo l’Italia” è una strada che porta a una nuova ondata di cemento. Una delle opere che hanno già richiesto a Renzi di “sbloccare” è il mega abuso edilizio del Crescent, la mezzaluna di cemento che occupa un terzo del lungomare storico di Salerno fortemente voluta dal sindaco Vincenzo De Luca. La pubblicità, devo dirlo, è però geniale: compratevi un appartamento nel Crescent, è l’unico posto da cui non si vede il Crescent. 
 
Lei traccia una linea di congiunzione tra gli attacchi di matrice berlusconiana alla “metastasi” rappresentata dai pubblici ministeri e l’entusiasmo stroncato dalla seconda sillaba della parola “sovrintendente” dell’epoca Renzi. Che cosa la preoccupa di più?
 
Non vorrei che stia per succederci quanto avvenuto con Berlusconi. L’ex premier per vent’anni ci ha impedito di dire quali sono i gravissimi limiti della magistratura italiana, sottoponendola a una doverosa critica. Non vorrei che ora Renzi ci impedisse di dire e denunciare quali sono i gravissimi limiti delle sovrintendenze, perché l’urgenza è difenderle dallo smontaggio e dall’assalto alla diligenza. Sarebbe un pessimo servizio. È necessario chiedere responsabilità e professionalità ai sovrintendenti, è vero, come è vero che debbano essere pagati. Il fatto che il direttore degli Uffizi guadagni 1.800 euro al mese è abbastanza impressionante. 
 
Ad ogni modo il governo Renzi, nell’ambito del recente decreto (pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 31 maggio scorso) intitolato “Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo” introduce la figura del “manager” d’arte. Che ne pensa?
 
Faccio un passo indietro. L’Università italiana ha smesso di formare storici dell’arte e archeologi -laureati fino a poco tempo fa in lettere- per far posto a operatori dei beni culturali o manager del patrimonio culturale. Figure prive di cittadinanza nel resto del mondo e che il decreto Franceschini introduce nell’ordinamento. Propongo di andare a cercare un ruolo analogo al Louvre (diretto da un archeologo) o alla National Gallery di Londra (storico dell’arte) o al Metropolitan o al Prado. Non esiste l’idea di formare un manager dei beni culturali, che nulla sappia di quei beni ma li possa amministrare. Questa è una vera follia italiana. Credo che debbano esistere, e tornare ad esistere, figure quali gli archeologi, gli storici dell’arte, gli archivisti, i bibliotecari. Il patrimonio culturale è il luogo dove devono incontrarsi professionalità diverse. C’è bisogno di economisti, è vero, ma non del patrimonio culturale quanto economisti autentici, che siano in grado di dialogare con gli storici dell’arte e gli archeologi. Non esistono i “chimici del patrimonio culturale” o “fisici del patrimonio culturale”. Occorrono i chimici e i fisici.
 
Dal suo punto di vista quali spazi possono aprirsi dinazi ai soggetti privati?
 
La distinzione tra il mecenatismo e le sponsorizzazioni è necessaria. Il mecenate è colui che dona senza chiedere nulla in cambio, se non un’intitolazione o una targa o un riconoscimento sociale. Esistono in Italia? Pochissimi. Uno è Yuzo Yagi, che ha donato alla sovrintendenza di Roma 2 milioni di euro per recuperare la Piramide di Cestio. Caso italiano è quello di Diego Della Valle e del Colosseo -un esempio di sponsorizzazione e non di mecenatismo- legittimo ma che richiede un’attenta opera di regolamentazione. Basti pensare che nel progetto iniziale -20 milioni di euro l’importo assicurato da Della Valle- era prevista un’esclusiva sulla comunicazione e la costruzione di un “provvisorio” edificio (99 anni) per il merchandising in un’area sottoposta a vincolo. 
È fondamentale perciò incentivare il mecenatismo e il decreto Franceschini ha effettivamente provato a dare un segnale. A patto però che non sia una fregatura: quando ho scoperto che tutta la copertura finanziaria del decreto, fatto a due giorni dalle europee, ammontava a meno di un milione di euro ho pensato più ad un’operazione di marketing elettorale che non a un’operazione concreta. È vero però che per la prima volta si introduce la possibilità non di detrarre ma di avere un credito di imposta del 65% della donazione su tre anni -negli Stati Uniti c’è una detrazione del 110%-. È un primo passo importante. Ancora migliore sarebbe però se ci fosse una vera incentivazione di un mecenatismo diffuso, di un crowfunding vero, come il Louvre. 

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