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Opinioni

Il valore della fede

Chi s’impegna nel quotidiano per costruire un’altra economia deve saper valorizzare le "sorgenti interiori" del proprio percorso, condividere le proprie convinzioni più profonde. Così sapremo esprimere un’azione che faccia superare ogni possibile forma di attivismo sterile

Tratto da Altreconomia 173 — Luglio/Agosto 2015

Le sorgenti interiori dell’altra economia. Di solito non se ne parla. Eppure è una questione che va riconosciuta come decisiva. Infatti l’impegno per una società umanamente, economicamente ed ecologicamente sostenibile non è mai riducibile ad alcune pratiche, è un’azione che coinvolge tutta la persona. Implica la scelta per uno stile di vita e per un orizzonte radicale di ideali e di valori. Comporta una scelta di senso. È quanto ad esempio ha saputo raccontare con grande finezza Massimo Orlandi nel libro La terra è la mia preghiera (Bologna, EMI, 2014), che racconta la storia di Gino Girolomoni e della nascita della cooperativa Alce Nero. Da questo racconto si capisce che l’agricoltura biologica è agricoltura “spirituale”. Dove tale aggettivo non indica qualcosa di etereo in opposizione a ciò che è fisico e materiale. Piuttosto, “spirituale” significa relazionale, vissuto con amore, in l’armonia con la natura, con la vita, con gli altri, con se stessi e, nel caso di Girolomoni, con Dio.

Questo esempio rivela qualcosa di essenziale: per fare davvero la scelta di operare per un’altra società e per un’altra economia è necessaria la fede. Non parlo della fede religiosa, essa è una possibilità legittima, preziosa, ma non obbligatoria e universale. Parlo della fede nella comunione, dunque nella vita come comunità dei viventi, che è poi la fede in quella che Aldo Capitini, l’interprete più autorevole della filosofia della nonviolenza in Italia, chiamava la realtà liberata. In proposito ci sono due strade senza sbocco. La prima è quella fondamentalista di chi pretende di far valere la fede religiosa, oppure l’ateismo, come visione del mondo valida per tutti. La seconda, concepita per evitare questo rischio di fanatismo, è la strada della neutralità: ci si trova insieme per delle pratiche sociali alternative, ma ognuno si tiene nel cassetto le proprie convinzioni più profonde. È la strada della privatizzazione delle coscienze, nell’errata convinzione che ci si possa trovare d’accordo solo su un minimo comun denominatore di tipo pratico e operativo.
La strada feconda, oltre il fondamentalismo e la neutralità asettica, è quella della comune fede nella comunione. Di quale tipo di fede si tratta? È la fede per cui si crede nella giustizia tra gli esseri umani e nella loro indivisibile dignità, si crede nell’armonia con la natura e si può credere che comunque c’è una Fonte di senso che dà respiro alle esistenze, una Fonte da cui si può attingere l’energia appropriata per l’azione. Tale energia non si confonde affatto con la brutalità del potere dominativo e della violenza. La “Fonte” sarà pensata da ciascuno con una sua denominazione: per qualcuno sarà Dio, per altri la Vita, per altri ancora la Natura e così via. Ma al di là del tipo di identificazione con cui ciascuno la interiorizza, tutti possiamo laicamente riconoscere che l’amore in grado di generare azioni giuste non ce lo inventiamo, non lo fabbrichiamo noi, ma lo riceviamo da una Fonte che ci precede. Se ci rifiutiamo di andare in profondità nella vita della coscienza e nelle sue motivazioni, allora la nostra lotta per un’altra economia sarà esposta alla caduta nella superficialità, nell’individualismo, nel settarismo e soprattutto nello scandalo della delusione rispetto alle aspettative che avevamo, di fronte allo scarto tra progetto ideale e realizzazioni effettive.

La fede nella comunione cresce con il desiderio di vita vera, l’anelito e l’attesa di un compimento che dia pienezza di significato all’esistenza. Chi non trascura questo desiderio viscerale impara a scoprire che la vita non è fatta per la morte, così come gli esseri umani non sono fatti per il potere. La vita stessa viene riportata a logiche di morte quando viene assoggettata al potere. E se gli esseri umani si dedicano al potere -inteso non come servizio e coordinamento in vista del bene comune, ma come capacità di comandare, fare e disfare a piacimento anche a scapito degli altri- restano disumanizzati. È quanto è capitato precisamente all’uomo oppressore della natura, il quale si comporta così perché ha già misconosciuto e oppresso la propria umanità. I frutti della fedeltà alle sorgenti interiori della nostra scelta verranno alla luce nella capacità di felicità condivisa, nella forza di resistere all’oppressione, nella capacità di solidarietà e di generare liberatrice. Sapremo esprimere un’azione che ci fa superare l’attivismo sterile e che ci salva dal ripiegamento nella depressione. —

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